Veneto
LA TOMBA DI GIULIETTA
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Il mistero della costola di drago – Lago d’orta
La storia narra di tre laghi del nord Italia: il lago d’Orta, il lago Gerundo, un lago riassorbito dalla terra che ora non esiste più, e il lago di Santa Croce.
La storia narra di una linea continua tracciata dal nostro lago fino in Val Apisina, in provincia di Belluno, una linea di chiese con al loro interno ossa di enormi draghi.
Le ossa dei draghi ritrovati sono appartenenti ad enormi figure alate con occhi lucenti e aliti di fuoco… per alcuni simbolo del male, per alcuni custode di tesori e protettore di principesse e bambini, la figura del drago si ritrova nelle antiche mitologie di ogni parte del mondo e nelle fiabe, nei libri e nei films.
Partiamo dal primo lago, il Lago d’Orta, considerato da molti il "Lockness italiano", dove molti pescatori nell’antichità hanno visto riaffiorare in superficie le code dei draghi tra le fredde nebbie inverali.
Una leggenda narra che San Giulio, predicatore e guerriero vissuto nel quarto secolo dopo Cristo, volendo a tutti i costi costruire la sua centesima chiesa, si spinse fìn sulle rive del lago e qui, affascinato dal luogo, rimase a contemplare l’isola, la quale – si dice – fosse allora infestata da draghi e
serpenti.
Il santo, non trovando una barca, stese il proprio mantello sull’acqua e camminandovi sopra raggiunse l’isola.
Scacciati draghi e serpenti con la sola forza della parola, cominciò a costruire la sua centesima chiesa, nella quale fu poi sepolto. All’interno della basilica si trovano sculture sacre rappresentanti draghi ed in sacrestia c’è un antico drago in ferro battuto sopra il quale è appeso un osso, un’enorme vera vertebra delle dimensioni di un metro.
Spostandoci ad est andiamo a toccare i confini dell’ormai scomparso Lago Gerundo tra Milano, Bergamo e Cremona. Nel raggio di questi territori si trovano 4 chiese all’interno delle quali sono esposte gigantesche costole di draghi ritrovate sui fondali dell’ormai scomparso lago.
La presenza dei draghi nel passato si riscontra anche nello stemma di Milano che ha raffigurato al suo interno un drago. Si narra che un antenato dei Visconti abbia ucciso un drago e che sia stato successivamente riprodotto nello stemma della città per ricordare l’impresa del giovane.
Anche nella chiesa di San Marco, sempre a Milano nel museo, c’è un affresco con raffigurato un uomo con accanto un drago e sullo sfondo un lago…l’ormai scomparso lago Gerundo.
Il drago simbolicamente rappresentava il male, ma la Chiesa lo raffigurava per mostrare come San Giorgio, San Giulio e San Michele Arcangelo siano stati dei Santi in grado di sconfiggere il male e far trionfare il bene.
Anche sullo stemma della val Apisina ci sono due draghi ed è la valle che ospita il lago di Santa Croce, terzo dei tre laghi leggendari.
Gli abitanti della zona sentono spesso dei forti boati e si narra che siano i draghi che si aggirano tra le rocce.
Gli esperti pensano che i boati non siano altro che il prodotto di piccoli terremoti che si verificano a poca profondità tra le rocce del lago.
Questo lago è stato creato 10.000 anni fa dall’ultima glaciazione e proprio come il lago di Lockness le montagne che lo circondano a sud assumono l’aspetto della schiena del drago, creando un’ambientazione suggestiva e misteriosa.
Due laghi ed i resti di un terzo del nord Italia, accumunati dal mistero, dalla storia e dalle leggende dei draghi medievali…dove una visita ed una gita fuori porta fanno respirare atmosfere lontane e indimenticabili.
Laguna Venezia e l'isola che non c'è
La Laguna tramanda, da sempre, storie fantastiche, leggende e verità, che nel passare dei secoli si sono intrecciate al punto da non distinguere più il vero dal fantastico. I misteri di San Francesco del Deserto (si favoleggia persino che vi sia custodita la pelle scuoiata di un frate sulla quale sarebbe tracciata la mappa delle mitiche sette città di Cibola), la casa della finestra d’oriente, i tesori sepolti nella melma, il trono di Attila, e tante altre ancora.
La Laguna nasconde, nella realtà, sotto la sua coltre di acque sempre più malsane, tracce importanti di un passato suggestivo, ricordi di centri fervidi e ricchi, orgogliosi dei propri numerosi monumenti e delle proprie chiese, densamente abitati, che furono in alcuni casi le tombe dei primi Dogi.
Un vero e proprio tesoro che merita una azione di tutela e ricerca, che lo valorizzi e che evidenzi al pubblico, trasformando la laguna in un parco archeologico di valore mondiale, i fasti di una storia ormai affidata solamente all’archeologia subacquea.
L’area lagunare dove sono stati più numerosi i ritrovamenti di reperti è quella della laguna nord, un’area che nel corso dei secoli ha subito sconvolgimenti naturali di vastissima portata. I siti archeologici più importanti e noti sono il canale di Treporti, il canale naturale che dal porto di S. Nicolò va verso il canale di Burano, il canale S.Felice, che dalla profondità di poco più di 4 metri ha restituito anfore e mattoni di epoca romanica, e nel quale esistono i resti di una torre di avvistamento romana (una struttura poderosa di oltre 80 mq.) che testimoniano come colà esistesse un’isola.
Le origini di questo tesoro, romanico e post romanico, sono note. Le orde unne e longobarde che scendevano lungo la pianura tra il Piave ed il Sile, obbligarono gli antichi abitanti di Altino a trasferirsi nelle più sicure isole lagunari, presto imitati dagli abitanti di Opitergium (l’attuale Oderzo).
Fu così che ben prima dell’anno Mille, si verificò che una miriade di isole ed isolotti lagunari fossero abitate da profughi desiderosi di ricostruire le loro città ormai perdute e di creare stabili insediamenti.
Di molte di esse oggi rimane solo qualche misero resto, la memoria di un nome o, a volte, nessuna traccia: Eraclea, Ammiana, Ammianella, La Cura, Torcello, Malamocco (non l’attuale ma l’antica distrutta da un maremoto che creò di fatto la Laguna), Costanziaca.
Quest’ultima, la più misteriosa e leggendaria, oggetto di mille illazioni e supposizioni, di cui l’ultimo accenno risale ad una bozza di cartografia disegnata dal Piva per lo studio delle origini del Patriarcato di Venezia, poteva essere definita, più di tutte le altre e con buon merito, città.
Era abitata da una considerevole comunità, rappresentata dai fuggiaschi di Altino: si sviluppava su quattro isole unite da ponti, aveva almeno sei sontuose chiese (datate prima del VII secolo) ed era divisa da un ramo del Sile che formava il canale principale (oggi canale della Cura) in due parrocchie.
Dove oggi ci sono le barene ad est di Torcello sorgevano le chiese di S. Massimo e S. Marcellino, il monastero di S.Mauro, l’abbazia di SS. Giovanni e Paolo. Dove oggi esiste l’ Isola della Cura (allora non ancora emersa) esistevano le chiese di SS. Sergio e Bacco e quella di S.Matteo, tutte sottoposte alla potestà di Ammiana.
L’isola più nota che contribuiva a formare Costanziaca è stata identificata (ma ciò è tutto da rivedere in quanto probabilmente era solo una frammento dell’isola originale) con quella di S. Arian (a volte anche S.Adriano) che prendeva nome dalla omonima chiesa dall’altissimo campanile, ben visibile dalla laguna, che ha tracce certe sino all’anno 1490, dopo di che fu trasformato in ossario per ordine dei Dogi che fecero cingere l’isola con un alto muro, ed ospitava un convento di suore Benedettine fondato nel 1106 dalla nobil donna Michiel figlia del Doge Vitale, e moglie di Nicolò Giustiniani, che, prima di rinchiudersi nella pace conventuale aveva regalato al marito ben 13 figli.
Il convento, all’epoca, era frequentato dalla migliore nobiltà veneziana, e dello stesso sono state di recente riportate alla luce le fondazioni.
Secondo la cartografia del Piva (1927) nell’area di Costanziaca sarebbe ricaduta anche la basilica di S.Marcellino e S.Massimo, eretta nel 630 dal Vescovo di Torcello Giuliano, inizialmente attribuita al patrimonio artistico di Ammiana.
In ogni caso Costanziaca era adiacente ad Ammiana, l’isola più famosa della Laguna Superiore, che già nel 600 contava 15 tra chiese e monasteri, tra i quali la basilica di S.Pietro di Casacalba che sorgeva ove ora si trova la Motta dei Cunicci (uno dei pochi resti finora affiorati dopo vari sprofondamenti che i luoghi hanno subito nel corso dei secoli, si pensa a causa di due successivi maremoti).
Le mutanti correnti marine, le terre emerse rese malsane dall’impaludamento della circostante laguna, causarono che già agli inizi del 1400 le isole erano pressoché abbandonate. Unico ed ultimo baluardo umano veniva rappresentato dal monastero di S.Ariano, che dovette però subire tali invasioni di serpi e biscie da costringere le monache (nel 1349) ad abbandonarlo ed a trovare rifugio a Torcello, e successivamente, per decreto del Pontefice Paolo III, trasferirsi al Monastero di S.Angelo di Zampenigo a Torcello e successivamente, al convento di S.Girolamo, cui fu attribuita tutta la proprietà della zona di S.Ariano.
Si racconta, nelle serate invernali a Portegrandi, tra una “sepa” ed un’ ombra, che gli archeologi dilettanti che battono, di nascosto, la laguna, per sfuggire alla discreta sorveglianza delle autorità, abbiano trovato anfore, monete, resti di imbarcazioni, monili, di prima e dopo Cristo, ed addirittura che sia stata individuata una pavimentazione che potrebbe essere la via principale di una qualche città, quasi certamente di epoca romanica, sprofondata nel fango.
Ciò che è certo è che i romani ben conoscevano e praticavano la zona: qui passava la strada Annia, nota anche come Emilia Altinate, che collegava Aquileia ad Adria passando per Altinum.
Quindi non è da scandalizzarsi se si ipotizza che sotto le barene possa celarsi una intera città. In questi luoghi le isole sommerse e semisommerse sono note da secoli, e tracce di antiche palafitte, forse addirittura preromaniche, come quelle sulle quali fu più tardi eretta Venezia, se ne sono trovate in vari casi.
La mitica e misteriosa Costanziaca, con le sue città quartiere di Costanziaco Maggiore e Costanziaco Minore, doveva sorgere proprio qui, tra l’ossario di S.Ariano e l’isola di S.Cristina, in quella che oggi è nota come la Palude della Centrega.
Quel che è certo è che la barena a volte restituisce qualche piccolo resto… magari una tessera di mosaico, magari una moneta… a volte un anfora.
La laguna aiuta a costruire, ma la laguna può anche distruggere.
I vecchi tramandano i ricordi dell’ AQUA GRANDA, che deve essere identificata con i due storici grandi maremoti che si sono abbattuti sull’area attuale della Laguna, spazzando isole ed abitanti, e facendo affiorare nuove terre su cui edificare la storia di Venezia.
Sussurri della laguna? Leggende fantastiche? Immaginazione di marinai usi a degustare un buon bacaro? No, verità storica!
Non ancora del tutto dimostrata solo perché l’impresa sarebbe colossale.
Una ipotesi formulata da tempo, sarebbe transennare parte della laguna o della barena, vuotarla dalle acque e dare avvio a scavi, ma in fondo, costerebbe un patrimonio per rivelare quello che già sappiamo, magari con l’aggiunta di un po’ di romantica immaginazione che infiori la conoscenza provata.
Meglio quindi lasciare dormire in pace la nostra isola che non c’è, e lasciare che tutti possiamo fantasticare su dove essa sia realmente sepolta dalla melma della barena, con le sue chiese maestose, i suoi campanili, le ville romaniche ed i conventi.
Lasciamola dormire in pace, affidiamo il suo ricordo ai sussurri della laguna, a vanto perenne della nostra storia, tanto vasta e, purtroppo, a volte, tanto poco conosciuta.
Torcello: l’isola delle leggende nella laguna di Venezia
Torcello è un isolotto situato nella parte settentrionale della laguna di Venezia, di fronte all’isola di Burano. E’ un luogo di grande fascino e suggestione ma oggi quasi del tutto disabitato: ci sono solo 23 abitanti nell’angolo che meglio rispecchia le testimonianze dei primi insediamenti lagunari. Tuttavia il flusso turistico verso l’isola è costante, in ogni periodo dell’anno.
L’isola fu frequentata già in epoca romana ma si sviluppò in maniera notevole durante il periodo delle invasioni barbariche, quando fu usata come rifugio dai profughi di Altino che la colonizzarono e la resero splendida. Nell’Alto Medioevo ebbe il suo miglior periodo grazie alle numerose attività commerciali legate soprattutto alla navigazione e alla produzione del sale.
Divenne poi un importante centro religioso, con chiese e monasteri e fu sede vescovile per più di mille anni. Inoltre le sue fiorenti industrie, come quelle della lana, contribuirono allo sviluppo economico sino al XIV secolo.
Nell’isola sono presenti due principali edifici religiosi: la cattedrale di Santa Maria Assunta, con tre navate suddivise da una doppia fila di colonne la cui aula si conclude con tre absidi. Ha un soffitto a capriate e un pavimento quasi interamente in marmo, che costituisce una testimonianza preziosa della presenza bizantina in terra veneta. Nel Duomo si trova un mosaico in stile veneto-bizantino molto noto agli studiosi di storia dell’arte: raffigura il Giudizio Universale e i dannati dell’Inferno con le diverse pene loro inflitte. E’ improntato a un forte interesse per le figure violente: i lussuriosi sono tra le fiamme, i golosi tra le tenebre, gli invidiosi sono visti come teschi dai cui occhi escono serpenti, gli avari sono teste con pesanti orecchini. La scena non è unitaria perché si tratta di un’opera a carattere prettamente decorativo e in essa si nota anche l’impaccio dell’artista nel concepire i nudi e nel passaggio brusco tra arti e tronco.
La chiesa di Santa Fosca, invece, completa lo schema paleocristiano tradizionale, essendo attigua alla cattedrale. Le reliquie della Santa giunsero a Torcello nel X secolo da Sabratha, città vicina a Tripoli.
Questa isola è molto suggestiva e piacque anche a Hemingway, che nel 1948 la scelse come dimora invernale soggiornando nella locanda Cipriani per scrivere il romanzo Di là dal fiume tra gli alberi.
Ma la vera particolarità che contraddistingue Torcello è la concentrazione di leggende che si narrano su questo luogo. Nei canali che la costeggiano escono miriadi di bollicine che per secoli hanno alimentato leggende sulle sirene. All’attracco del vaporetto poi, si scorge sulla sinistra la Casa dei Borgognoni, che si dice abitata dal fantasma di un frate morto nel XVII secolo a causa di un’esplosione.
Continuando per l’unica strada dell’isola troviamo il Ponte del Diavolo (nella foto), dove la leggenda narra che durante l’occupazione austriaca una ragazza veneziana si innamorò di un ufficiale dell’esercito occupante. La famiglia di lei non era d’accordo e per questo uccise l’ufficiale di nascosto. La ragazza era disperata a tal punto da fare, mediante una maga, un patto con il diavolo, il quale promise di ridare vita al ragazzo se in cambio gli avessero offerto l’anima di sette bambini. Il giorno dell’appuntamento la ragazza scappò con il suo uomo attraversando il ponte. A questo punto la maga doveva consegnare le sette anime entro una settimana, ma morì prima per cause naturali. Da allora, secondo la leggenda, ogni notte il diavolo si presenta sul ponte per aspettare le proprie anime.
Un’altra leggenda aleggia intorno a una rudimentale sedia di marmo presente nell’isola (la vedete nella foto) di cui si dice sia appartenuta ad Attila, il temerario e temibile re degli Unni.
Marostica una storia d’amore rivissuta in una partita a scacchi
Si racconta che nel 1454 due giovani della zona decisero di sfidarsi in duello per contendersi l’amore e la mano della bellissima Lionora, figlia di Taddeo Parisio, Castellano di Marostica. I due, Rinaldo d’Angarano e Vieri da Vallonara, si sarebbero affrontati con la spada se non fosse stato per l’intervento di Taddeo che decise, per evitare spargimenti inutili di sangue, di applicare un editto di Cangrande della Scala signore di Verona, e acquisito poi dalla Repubblica di Venezia, he concedeva di disputare, al posto del duello, una partita a scacchi. Taddeo, che voleva comunque imparentarsi ad entrambi, decise di dare in sposa a colui che avesse perso, la figlia minore Oldrada, giovane e bella.
Per fare le cose in grande stile, il Castellano decise far “vivere” la partita davanti al Castello: doveva esser disputata da persone in carne ed ossa, con veri cavalli, e in un giorno di festa. Lionora, che era segretamente innamorata di uno dei due ragazzi, aveva fatto sapere al contado che se avesse vinto il suo innamorato il castello si sarebbe acceso.
Poveglia, l’isola dei fantasmi
Una storia di fantasmi, benché più immediatamente attraente per il pubblico, spesso non è onesta al pari di una dove vengono esposti fatti nudi e crudi. Ma quando i fatti sono relativi all’isola di Poveglia, possiamo star certi che saranno accattivanti allo stesso modo, per i “credenti” quanto per gli scettici.
L’isola di Poveglia si trova a sud della costa di Venezia, lungo il canal Orfano, in quel tratto della laguna fra la serenissima e il porto di Malamocco.
Ad oggi è un isola disabitata, non aperta al turismo e abbandonata all’erosione che ne riduce ogni giorno di più i confini. Ma non sempre è stato così: storicamente questo piccolo lembo di terra ora immerso nell’oblio, ha vissuto i suoi giorni di gloria a partire dal secolo 800, quando in seguito all’uccisione del tredicesimo doge di Venezia Pietro Tardonico, accolse le famiglie dei 200 servi a lui più fedeli per concessione del doge Orso I Partecipazio. L’isola crebbe nello sviluppo fino alla guerra di Chioggia, scoppiata nel 1379 fra le due repubbliche marinare di Genova e Venezia. Poveglia, per la sua posizione strategica, venne sfruttata come avamposto militare e tutti i civili che la abitavano furono “cortesemente invitati” ad abbandonarla, per lasciar posto ai vari armamenti (ancora oggi, fra i ruderi, è riconoscibile l’ottagono).Da allora, l’isola di Poveglia è rimasta pressoché inabitata e ha assolto alle funzioni più scomode e impressionanti.
Nel 1700, all’epoca della “morte nera” essa divenne un lazzaretto. La peste colpì duramente l’Europa e a Venezia, al fine di evitare la diffusione della malattia il magistrato della sanità dispose che tutti i corpi sarebbero dovuti essere condotti sull’isola di Poveglia per essere bruciati e sepolti in fosse comuni. Successivamente, il provvedimento si estese drammaticamente ai contagiati: Poveglia divenne l’isola della quarantena, dove individui ancora coscienti, a volte non ancora contaminati, venivano condotti a morire lontano da Venezia. Uomini, donne e bambini morirono lentamente, consumati dalla malattia. La testimonianza di questo strazio si trova nel terreno di Poveglia stessa, dove sotto placidi vigneti, vengono ancora oggi rinvenuti migliaia di corpi.
Poveglia, manicomio
Nel corso degli anni intorno all’isola e ai sui suoi morti nacquero tante leggende, tutte legate a una sorta di essenza malevola di cui essa era ormai permea, radicata fin sotto terra. Ma la storia degli orrori non si era ancora conclusa: nel 1922 a Poveglia venne eretto uno strano edificio la cui funzione è ancora oggi dibattuta; qualcuno è arrivato perfino a negarne l’esistenza. Di che edificio si trattava?
Da alcuni archivi risulta che esso svolse la funzione di casa di riposo per anziani. Tuttavia i fatti e le testimonianze sembrano condurci ad una versione un tantino differente e cioè che l’edificio fosse una clinica per malati di mente. Tale ipotesi è oggi la più accreditata, supportata in maniera schiacciante delle rovine del luogo che urlano la loro verità. “reparto psichiatria” è ciò che troverete inciso sulle pareti all’ingresso.
Il manicomio venne poi smantellato nel 1946, ma gli anni in cui esso fu attivo furono i più ricchi di avvenimenti e avvistamenti inquietanti. Sembra infatti che i pazienti dell’ospedale fossero tormentati dalle anime dei morti di peste e che in quei periodi le richieste di trasferimento presso altri centri arrivassero numerosissime alla scrivania del direttivo.
Trattandosi di individui classificati come “malati di mente”, i loro racconti non vennero mai presi in seria considerazione e, anzi, funsero da pretesto per soddisfare i sadismi del direttore, che la leggenda ci descrive come un sadico lobotomizzatore.
I mezzi adoperati nel manicomio di Poveglia per la cura dei malati di mente sembra fossero atroci e primitivi, per le conoscenze di oggi. La prima lobotomia di cui si ha notizia venne effettuata in Svizzera nel 1890 dal dottor Sarles, che forò il cervello di sei pazienti ed estrasse parti del lobo frontale. È plausibile che in Italia, a Poveglia, questo dottore eseguisse le stesse pratiche sui suoi pazienti? E ancora, è davvero esistito un individuo simile? La leggenda si conclude con la sua morte: tormentato a sua volta dagli spiriti di Poveglia, come accaduto per i pazienti in cura, l’uomo impazzì e si suicidò gettandosi dal campanile dell’isola. Un’infermiera che aveva assistito all’accaduto raccontò che egli non morì con l’impatto col suolo, ma soffocato da una strana nebbiolina che si era propagata dal terreno fin dentro il suo corpo, lasciandolo esanime.
La storia è suggestiva ma sebbene ci siano evidenze concrete circa l’esistenza del manicomio, sul suo direttore, fanatico lobotomizzatore, non è trapelato molto. Fa comunque riflettere il fatto che negli archivi veneti il manicomio di Poveglia venga spacciato come una casa di riposo per anziani, come se la verità sul suo utilizzo di ospedale per malati di mente fosse da custodire segretamente.
L’abbandono del manicomio segna anche la fine della storia “ufficiale” dell’isola. Da allora essa è disabitata e i pochi visitatori che nel corso degli anni hanno deciso di esplorarla sono tornati indietro con testimonianze raggelanti di voci, lamenti e apparizioni di strane figure. Negli anni sessanta una famiglia benestante l’acquistò e vi si stabilì, per poi sbarazzarsene dopo qualche mese dall’acquisto, terrorizzata anch’essa dagli spiriti dei malati di peste (anche ritrovarsi una fosse comune in mezzo al vigneto non deve essere stata un’esperienza piacevole). Recentemente i parapsicologi della serie tv “ghost adventures” hanno girato un episodio sull’isola di Poveglia.