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Piemonte

Luogo da brividi – Ossario di San Bernardino

 

Una leggenda racconta che tra gli scheletri ci sia anche quello di una ragazzina che la notte dei morti esce dal tumulo Attraversando l’omonima piazza della basilica, ormai sconsacrata, di Santo Stefano, ci troviamo davanti la facciata barocca della chiesa di San Bernardino. Entrando ci accoglie un’atmosfera fredda e altera. La struttura a pianta centrale presenta pochi elementi di interesse, se non una tomba di famiglia di discendenti, da parte materna, di Cristoforo Colombo, il cui stemma reca la scritta «Colon diede il nuovo mondo alla Castiglia e al Leon».

Imboccando una porta sulla destra dell’entrata, ci si ritrova in un angusto e buio corridoio con le pareti tappezzate da impolverati ex voto del secolo scorso. Percorrendolo tutto e varcando una seconda porta, lo spettacolo che si apre ai nostri occhi è sconcertante. Intere pareti ricoperte di ossa sembrano avvolgerci e sommergerci, trascinandoci in un ambiente lugubre in cui l’odore del passato è ancora vivo e palpabile.

Le ossa e i teschi che vediamo appartengono a condannati e carcerati morti in prigione dopo che, nel 1622, il loro apposito cimitero si dimostrò insufficiente ad accoglierli, ai religiosi che ci lavoravano, insieme a quelli della vicina basilica di Santo Stefano, a vagabondi e infermi, e anche a nobili images (1)milanesi sepolti nelle chiese vicine.1
Le sue origini risalgono al XIII secolo, ma la sua storia va ricostruita a partire dal 1145, anno in cui, nei pressi della basilica di Santo Stefano (più precisamente in quella che è l’attuale via Brolo),venne edificato un ospedale con accanto un cimitero, che presto, però, si rivelò inadeguato. Fu così che nel 1210 venne eretta una piccola camera adibita a contenere le ossa esumate dal cimitero, a cui nel 1268 fu affiancata una chiesetta da usare come sepolcro per i Priori e i Fratelli che dirigevano l’ospedale. Solo un secolo più tardi, esattamente nel 1450, la chiesa fu dedicata a San Bernardino da Siena, proclamato santo in quell’anno.
Nel 1642, però, il campanile della Basilica crollò, distruggendo sia l’Ossario che la chiesetta. Mentre quest’ultima fu subito ricostruita,l’Ossario, rifatto dalle fondamenta, fu ultimato nel 1695, distinguendosi subito come uno dei luoghi più tetri e macabri di Milano.Le pareti della cappella a pianta quadrata, infatti, sono interamente ricoperte di teschi e ossa recuperati dall’antico Ossario e usati come singolari decorazioni anche su porte, pilastri e cornicioni; ammucchiati entro nicchie, disposti a forma di croce, o in modo da riprodurre la lettera «M» (la chiesa è infatti dedicata a Santa Maria Addolorata). L’atmosfera cupa che si viene così a creare, contrasta con l’affresco della cupola, che rappresenta delle anime che ascendono verso il Paradiso circondate da una moltitudine di Angeli. La credenza che molte delle ossa contenute nella camera fossero di cattolici perseguitati e uccisi da eretici seguaci dell’arianesimo, all’epoca in cui Sant’Ambrogio era vescovo di Milano (dal 374 al 397), fu presto smentita: le ossa appartenevano a semplici «Innocenti», nome con il quale fu battezzato inizialmente l’Ossario.

Dato l’elevato numero di fedeli che questo

luogo raccoglieva, occorreva uno spazio più ampio, così nel 1750 la Confraternita dei Disciplini fece costruire l’attuale Chiesa di San Bernardino (ad opera degli architetti Biffi e Merlo), posta a sinistra dell’Ossario, mentre la vecchia chiesetta fu adibita ad atrio della nuova, da quel momento chiamata «dei Morti» o «alle Ossa».
In epoca di dominazione austriaca, Chiesa e Ossario, che dipendevano dalla giurisdizione della basilica di Santo Stefano, passarono sotto il controllo del Regio Demanio, per essere poi restituiti all’Autorità Ecclesiastica solo con i Patti Lateranensi del 1929.
Nel 1738, Giovanni V re del Portogallo, dispendioso sovrano che impiegò gran parte delle entrate destinate alla corona per finanziare la costruzione di un imponente monastero, visitando e apprezzando l’Ossario di San Bernardino, decise di farne edificare uno identico nei pressi di Lisbona.
Secondo alcune fonti, in mezzo alle carcasse ammonticchiate sotto l’altare, è possibile distinguerne una le cui ottime condizioni di conservazione fanno pensare a un caso di mummificazione naturale. Ma l’unico corpo integro e riconoscibile di tutta la cappella (uno scheletro con le braccia tese e il capo rovesciato) non è in condizioni tali da potersi definire una mummia.


Una leggenda racconta che sulla sinistra dell’altare, in mezzo alle altre ossa, sia sepolto anche lo scheletro di una ragazzina. La notte dei morti la fanciulla esce dal suo tumulo passando per uno stretto pertugio e trascina con sé tutti i suoi simili. Gli scheletri ricomposti inscenano una danza macabra nel mezzo della cappella e vengono presto raggiunti anche dagli scheletri dei giustiziati, rinchiusi sopra la porta d’ingresso, verso la strada. L’orribile suono delle ossa in movimento si sente anche fuori dalla cappella. Provare per credere.

Il ponte del Diavolo di Lanzo Torinese

Il ponte sulla Stura di Lanzo che sorge nei pressi dell'omonima cittadina non è che uno dei tanti attribuiti dalla tradizione popolare al Diavolo. Il sentimento che generava tale attribuzione era certo legato allo stupore per l'arditezza di tali opere: le evidenti difficoltà tecniche legate alla costruzione di tali meraviglie trovavano immediata spiegazione se affidate alle capacità soprannaturali del demonio. Il "Ponte del Roc" collegava Lanzo alla pianura, attraversando la Stura con una sola campata arditissima.

Il nome che tutt'oggi gli viene attribuito, "Ponte del Diavolo", potrebbe certamente derivare dalla leggenda che sorse intorno alla sua costruzione, avvenuta nel corso di una notte dal Demonio e dai suoi fidi aiutanti, ma altre interpretazioni sono state proposte. Forse 'l Diau era il soprannome del capomastro incaricato della costruzione. Ma c'è anche chi fa notare che per dieci anni gli abitanti del borgo furono costretti a pagare onerosi balzelli sul vino per recuperare i 1400 fiorini necessari alla costruzione del ponte: per molti doveva proprio essere un "pont del diau!". Il ponte è una robusta costruzione in pietra che da secoli scavalca il torrente, spesso impetuoso, che in questo punto ha già raccolto le acque dei ghiacciai delle sue tre vallate. La sua struttura ad arco viene definita "a schiena d'asino". La sua costruzione iniziò nel 1378, e fu affidata - secondo gli studi di Augusto Cavallari-Murat - a un certo Giovanni Porcherio. Ne sarebbe prova un documento nel quale lo stesso avrebbe ricevuto dei pagamenti "pro preparacione et aptacione primi pontis basterie (ponte bastiere - a causa della sua forma a basto)". Lo stesso Cavallari-Murat così descrive lo scenario che si presenta all'osservatore: "Se il ponte del Diavolo è un cimelio d'alto prestigioso interesse [...], non meno fascinosa è la sua collocazione nel paesaggio [...] L'ambiente fa cornice al manufatto [...] In verità il disegno spaziale delle visibili tracce del moto delle persone e dei loro mezzi di trasporto, cioè delle mulattiere che si raccordano entro il corpo del ponte e che s'irradiano per abbracciare ai piedi il Monte Basso ed il Monte Buriasco e per ascendere quest'ultimo sino al Borgo ed al Castello, estende il significato di architettura dal monumento alla natura: tutto il paesaggio è architettura [...] Non esiste mole architettonica isolabile dal contesto delle cose di contorno alle quali è vincolata [...] Chi voglia provarne la verità, si avvicini al Ponte del Diavolo percorrendo in piano le mulattiere, saltellando anche tra "marmitte dei giganti" ed anfratti delle rocce, e poi montando le erte scalette di approccio che salgono sulle spalle per proiettarci sull'acciottolato che ricopre l'arcone". Su Mondo romantico, un settimanale illustrato che usciva a Torino nella seconda metà del XIX secolo, lo scrittore Angelo Brofferio così aveva trascritto la leggenda sulle origini del Ponte del Diavolo tramandata dalla tradizione orale: "Bisogna prima di tutto sapere che una volta, molti secoli fa, si era stabilita nei dintorni [di Lanzo] una colonia di diavoli, allo scopo di coltivare per l'inferno le anime dei valligiani. Un giorno il diavolo in capo della colonia se ne andava in giro alla ricerca, ma era assai sfiduciato perché da molti giorni i suoi sforzi riuscivano infruttuosi, soprattutto per l'opera assidua che andava svolgendo negli stessi luoghi, e con scopi naturalmente opposti, un santo uomo dei dintorni. Neanche a farlo apposta quel giorno però i due avversari si vennero ad incontrare sulle rive della Stura; pare che a quei tempi diavoli e santi si conoscessero personalmente e non disdegnassero talora di scambiare fra loro qualche parola. Infatti il sant'uomo - che forse non disperava nemmeno di arrivare a convertire il diavolo - incontrandolo presso il fiume, non esitò ad attaccar discorso. - Come va, messer Satanasso? Hai fatto buona raccolta di anime, oggi? - Eh, no! c'è una carestia birbona: non si trova più nessuno che voglia venire con me: tutto per causa vostra, caro signor Santo! - Non ci pensare, buon diavolo! io non ho merito alcuno se la gente delle valli si va finalmente facendo migliore. Ascolta piuttosto. Tu vedi questo fondo di torrente? Ebbene, non sarebbe possibile costruire un ponte che ne facilitasse ai mortali la traversata pericolosa? Sovente, al guado, qualcuno ci casca, la corrente lo travolge e non si salva più! - Già, e purtroppo, son tutti così buoni ormai, che vanno diritti in Paradiso, tutt'al più in Purgatorio, ed io non ci guadagno mai nemmeno uno straccio d'anima! - A maggior ragione dunque, tu che sei forte in edilizia, dovresti provvedere. - Certo - rispose il diavolo un poco perplesso e anche lusingato - io potrei in una sola notte far costruire dai miei dipendenti un magnifico ponte, ma... - Ho capito - interruppe il santo - tu non sei fatto per la beneficenza senza scopo; ma io, vedi, ho pensato anche a questo: se tu farai il ponte solido e veramente utile a questa povera gente, io ti prometto che il primo a transitarvi sopra sarà abbandonato in tuo dominio, corpo ed anima... - Allora, patto concluso! - esclamò il diavolo fregandosi le mani dalle unghie lunghissime - so che i santi come te non dicono mai bugie, ed hanno la ingenua abitudine di mantenere le promesse. Dunque una volta tanto anch'io manterrò la mia, e domani il ponte sarà fatto. D'altronde riuscirà così alto che si presterà idealmente ai suicidi. E almeno chi si ammazza, non muore in odore di santità, e viene direttamente con me all'inferno! - Questa ultima osservazione fu fatta sottovoce, e mentre il santo già si stava allontanando perché la compagnia del diavolo alla lunga non gli era poi troppo gradita. Nella notte si scatenò un furiosissimo temporale, per cui nessuno osò mettere il naso fuori dell'uscio di casa: in mezzo alla bufera davvero infernale però i farfarelli e i barbariccia lavoravano tranquillamente, facendo muovere massi che sembravano mezze montagne, cementandoli fra di loro con un mastice potentissimo che traevano dritto dritto dall'inferno, e completando poi l'opera con tutte quelle ornamentazioni rudimentali che a quell'epoca conoscevano benissimo anche i diavoli. Allo spuntare del sole, la folla dei lavoratori cornuti e chiodati sparì come per incanto, e il ponte apparve agile e bello col suo unico arco elegantissimo che stringeva, quasi a congiungerle, le due opposte falde dei monti. Il diavolo, intanto, si era nascosto presso la nuova costruzione e attendeva che si effettuasse la promessa del santo: sentiva anzi già rumore all'altro capo del ponte, e, nell'impazienza, si arrotava le unghie e si mordicchiava la punta della coda. D'un tratto gli parve proprio di udire un passo grave e pesante risuonare da presso: si acquattò pronto allo slancio e, quando sentì ormai vicinissimo il passo, balzò dal nascondiglio sul misero viandante, gridando: - Ecco la mia preda! - e si trovò fra le acute unghie un ingenuo vitello, preda ottima per un macellaio, non per Belzebù. Vedendosi così ben beffato, il povero diavolo costruttore si volse allora adirato al ponte per maledirlo e farlo magari sprofondare; ma ci vide sopra una schiera di fedeli inginocchiati e alto, dritto in mezzo a loro, il Santo che reggeva il Crocifisso. A quella vista Satanasso non seppe più che fare: balzò nel torrente e scomparve in una nuvola di vapori di zolfo; ma il ponte rimase allora e rimane ancor oggi, dopo secoli e secoli, a testimoniare la serena, ingenua fede dei valligiani, cui tanto piace la storia di quel diavolo bonaccione, costruttore di opere di pubblica utilità. Tuttavia quel ponte conserva ancora qualcosa di peccaminoso. Alla domenica e nelle altre feste più o meno comandate, per le Valli di Lanzo amano sperdersi le coppiette in cerca di solitudini sentimentali, quando la primavera fa tiepido il sole, o l'estate rende care e propizie le ombre dei boschi. Guai se una coppietta, ancora relativamente ingenua, durante il suo pellegrinaggio, giunge sul ponte del diavolo, incerta se passare all'altra sponda. Dalle antiche pietre di origine infernale sorge subito il cattivo suggerimento, le ultime resistenze... non resistono più, e continua fatale la marcia dolcissima vero il peccato. Tutta colpa del diavolo costruttore, che non vuole aver lavorato per niente."

Un'altra versione della leggenda tira in ballo due innamorati, divisi - nel loro amore - dal fiume: «Il cavaliere, rivolgendosi al santo eremita, disse: "[...] Mi diceste che più volte il demonio vi tentò in vesti di capro, offrendovi i servigi più vari. Riterreste peccato il cedere alla sua offerta, se in cambio poteste ottenere la gioia di due giovani amanti? Ciò che per gli uomini è un'opera impossibile potrebbe esser chiesta al principe delle tenebre. È in vostro potere proporgli di innalzare un ponte che colleghi le due sponde di questo rivo". "Ingenuo cavaliere" lo interruppe l'eremita, "dovete tener conto del prezzo che quest'opera richiederebbe: l'anima di un figlio di Dio, offerta al Re delle Mosche. Come scordare, però, l'invito evangelico ad esser puri come colombe ed astuti come serpi? I figli della luce sono più scaltri dei figli delle tenebre, e ritengo possibile un patto con il demonio." Scesa la notte, i due si stesero tra gli sterpi non prima d'aver consumato un frugale pasto. La brace del fuoco appiccato al tramonto emetteva ancora piccole scintille; non appena il cavaliere cadde addormentato, le faville incominciarono a prender forma di creature alate che circondarono l'eremita obbligandolo a mettersi in ginocchio. Non appena una folata di vento riappiccò il fuoco, egli vide uscire da un cespuglio un orrendo capro che corse verso la pira infiammandosi orribilmente. Compreso che si trattava di Satana in persona, l'eremita si alzò immediatamente in piedi, rifiutando di mantenere la postura d'adorazione che aveva acquistato. Nel farlo, le scintille lo bruciarono in più parti del corpo, ma egli riuscì a ricacciare in gola ogni gemito. Lo sguardo fiero del sant'uomo era in grado di reggere quello fiammeggiante che gli era opposto. Non lasciò che il capro prendesse la parola, ma gli espose immediatamente la sua proposta: in cambio della costruzione di un ponte sopra il corso d'acqua, gli avrebbe concesso l'anima di colui che per primo lo avesse attraversato. Il capro svanì con una risata assordante. Quella notte una grande tempesta si scatenò improvvisa. Le popolazioni dei borghi ai lati del fiume udirono per ore il rumore di massi che si staccavano dai fianchi delle montagne per precipitare rovinosamente nelle acque. Fulmini e saette guizzarono per ogni dove, scolpendo un'opera che sarebbe durata nei secoli. Il cavaliere e l'eremita erano stati costretti a rifugiarsi nella cappella, a causa dell'enorme quantità d'acqua che le riserve celesti avevano rovesciato sulla terra per tutta la notte. Non ne uscirono se non dopo aver recitato le lodi mattutine. Alla loro sinistra troneggiava imperioso un ponte a basto che attraversava il corso d'acqua con una sola arditissima campata. Dietro una colonna del pronao, un orrido capro attendeva di catturare la prima creatura che gli sarebbe di diritto appartenuta. Il cavaliere udì dietro di sé un rumore assordante che lo indusse a voltarsi. Il santo eremita, invece, sembrava rendersi perfettamente conto di ciò che stava avvenendo; pareva, anzi, che lo avesse previsto. Una mandria di porci stava scendendo lungo la pendice del monte che sovrastava la cappella; per la sorpresa di trovarsi dinanzi ad un'opera così imponente realizzata da un giorno all'altro, il porcaro non s'avvide d'una delle sue bestie che si diresse verso l'imbocco del ponte, attraversandolo di corsa. Il capro, furioso, fece alcuni passi incredulo. E quando comprese d'esser stato gabbato dall'eremita, diede un colpo con uno dei suoi zoccoli sulle rocce antistanti la cappella con quanta più forza avesse in corpo. Poi svanì in una nuvola di zolfo, lasciando dietro di sé testimonianza della sua ira.» Abbiamo riportato le due versioni della leggenda poiché quest'ultima arricchisce il racconto di un elemento curioso. Il Diavolo, secondo questa versione, colpisce una roccia antistante la cappella con lo zoccolo dei suoi piedi caprini. Nei pressi della chiesetta, prima di salire sul ponte, è ancora visibile una piccola incavatura rotonda nella roccia, abbastanza profonda, attribuita al calcio furioso.

Il fantasma di Monte Sant'Angelo

 

Narra la leggenda che quando bene non si sa, forse ai tempi del Barbarossa o forse nel ‘300, quando tutta la Val di Susa pullulava di mercenari sanguinari, o forse ancora nel ‘600 coi Lanzichenecchi pestilenziali di manzoniana memoria, la Sacra – vista la sua posizione – era una sicura fortezza dove trovavano rifugio i villici durante le varie incursioni nemiche.

Durante una di queste, arrivò un gruppo di contadini; fra loro vi era una fanciulla che si chiamava Alda, nota in tutta la zona per la sua avvenenza.

Ed era bella, ma tanto bella, ma così bella che tutti la chiamavano – con slancio di fervida, poetica e originale fantasia – la Bell’Alda.

Quella volta però i nemici riuscirono ad invadere la Sacra; saccheggiarono la chiesa, massacrarono i monaci, uccisero i contadini e violentarono le donne.

La Bell’Alda riuscì a fuggire e, in preda alla disperazione e al terrore, s’arrampicò sulla cima della torre; la soldatesca la seguì sin lassù.

Non aveva più scampo.

Invocò l’aiuto della Madonna e si lanciò nel vuoto.

Ma dal cielo scesero lievi due angeli i quali, prendendola delicatamente per le braccia, la depositarono incolume a terra.

Passò un po’ di tempo e la Bell’Alda, inorgoglita, non faceva che vantarsi raccontando a tutti il miracolo di cui era stata protagonista; ma nessuno le credeva.

“Ma come?” diceva “Osereste mettere in dubbio la parola d’una Prescelta e Prediletta dalla Vergine, dagli Angeli e dai Celesti tutti?”.

E il popol tutto rispondea: “Sì!”.

Offesa e seccata, un bel giorno la Bell’Alda – pestando piccata il piedino a terra – sbottò: “Ok. Venite con me che vi faccio vedere io”.

Seguita dalla folla dei compaesani, corse alla Sacra, si ri-arrampicò sulla cima della torre e, sicura d’un nuovo aiuto divino, si ri-lanciò di sotto.

Ma il Cielo punì la sua superba boria: degli angeli quella volta non si vide manco la piuma di un’ala, e la Bell’Alda si spiaccicò violentemente al suolo.

Di lei, dice sempre la leggenda, “’L toc pi gross rimast a l’era l’ouria” (il pezzo più grosso rimasto era l’orecchio).

Nel punto esatto dello schianto, la pietà umana pose una croce e la fervida e poetica fantasia popolare le dedicò una canzone la cui ultima strofa declama:

La Bell’Alda insuperbita
qui dal balzo si gettò,
sfracellata nella valle
la Bell’Alda se ne andò.