Mario Mori ( CAPITANO ULTIMO)

Mario Mori ( CAPITANO ULTIMO)

Biografia[modifica | modifica sorgente]

Nato a Postumia Grotte il 16 maggio 1939 nell'allora Venezia Giulia italiana, oggi in Slovenia, si diploma a Roma, al liceo classico Virgilio, e, successivamente, presso l’Accademia Militare di Modena, completa gli studi e la formazione militare, fino a conseguire, nel 1965, la nomina al grado di tenente dei Carabinieri.

Primi incarichi nell’Arma dei carabinieri[modifica | modifica sorgente]

Come primo incarico, nel 1965, assume il comando di una Compagnia del IV Battaglione carabinieri di Padova, per poi essere destinato, nel 1968, alla tenenza di Villafranca di Verona, sempre come comandante. Dal 1972, per tre anni, svolge servizio presso il SID (Servizio Informazioni Difesa), a Roma, quindi, nel 1975, con il grado di capitano, viene trasferito al Nucleo Radiomobile deiCarabinieri di Napoli, dove rimarrà per altri tre anni.

L’antiterrorismo e gli anni con il generale Dalla Chiesa[modifica | modifica sorgente]

Il 16 marzo del 1978, il giorno del sequestro dell'on. Aldo Moro, Mori viene nominato comandante della Sezione Anticrimine del Reparto Operativo di Roma, iniziando un lungo periodo che lo vedrà protagonista nella lotta al terrorismo. Sulla scia dei gravissimi fatti di quell’anno, culminati con il ritrovamento del corpo dell’on. Moro il 9 maggio in via Caetani a Roma, il successivo 9 agosto, ilgenerale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa viene nominato dal governo "coordinatore delle forze di polizia e degli agenti informativi per la lotta al terrorismo". Le Sezioni anticrimine - reparti creati dall’Arma dei carabinieri per il contrasto al terrorismo e dislocati nei centri più sensibili al fenomeno - vengono a costituire la componente operativa ed investigativa più efficace e specialistica nel settore. Sono numerosi gli arresti effettuati in quel periodo dalla Sezione anticrimine guidata da Mori, tra questi spiccano quelli di Barbara Balzerani, Luciano Seghetti, Remo Pancelli, Francesco Piccioni, Walter Sordi, Pietro Mutti, Fabrizio Zani ed altri estremisti di destra e sinistra.

A Palermo[modifica | modifica sorgente]

Nel 1986, con il grado di tenente colonnello, dopo due anni di servizio presso lo Stato Maggiore dell’Arma dei carabinieri, Mori assume il comando del Gruppo carabinieri Palermo 1, incarico che manterrà fino al settembre 1990. Sono anni difficili in Sicilia, anni in cui la mafia, capeggiata da Salvatore Riina, non esita ad eliminare chiunque venga considerato un ostacolo per “cosa nostra” e per le sue numerose attività illecite. Proprio in questo periodo passato a Palermo Mario Mori inizia a conoscere la mafia, le origini e il suo radicamento sul territorio che deriva dalla forza dell’intimidazione prodotta dal vincolo associativo che la caratterizza e da cui scaturiscono condizioni di assoggettamento ed omertà per chi è costretto a conviverci. Mori capisce che contro un fenomeno di questo tipo i metodi investigativi utilizzati per disarticolare altre organizzazioni criminali, da soli, non possono essere pienamente efficaci e comunque non risolutivi. Per combattere la mafia occorre uscire dal classico schema investigativo fino al momento adottato, mirando piuttosto e soprattutto ad individuare e disarticolare le connessioni e le collusioni stabilmente intrecciate da “cosa nostra” con il mondo politico-imprenditoriale. In poche parole colpire la mafia nel suo principale centro d’interesse: quello economico. Negli anni passati a Palermo, oltre a sviluppare un’approfondita conoscenza del fenomeno mafioso, il tenente colonnello Mori incontra alcuni giovani ufficiali, in quel periodo alle sue dipendenze, che si distinguono per capacità ed impegno, tanto da diventare, nel vicino futuro, l’asse portante del costituendoROS dei carabinieri.

Il ROS[modifica | modifica sorgente]

 

Il ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) nasce il 3 dicembre del 1990, e il tenente colonnello Mori ne è uno dei fondatori. La struttura, individuata quale Servizio Centrale Investiga

tivo, assume, per l’Arma dei carabinieri, la competenza a livello nazionale delle indagini nel settore della criminalità organizzata e terroristica. Affidato inizialmente al comando del generale Antonio Subranni, è Mori a curarne la definizione della struttura ordinativa e della dottrina d’impiego, assumendo anche il comando del I Reparto, quello con competenza investigativa sulla criminalità organizzata. Il periodo passato al ROS sarà lungo, impegnativo e ricco di soddisfazioni; nel tempo Mori ne diventerà prima vice comandante, agosto 1992, con il grado di Colonnello, e poi, promosso Generale di Brigata nel 1998, comandante. L’esperienza maturata nei quattro anni passati a Palermo si rivela fondamentale e le indagini, per quanto riguarda il contrasto a “cosa nostra”, già avviate in passato, proseguono con nuovo impulso, sempre orientate, come indirizzo strategico, verso il settore economico-imprenditoriale. Ne deriva così anche un’articolata informativa che, curata dall’allora capitano Giuseppe De Donno, viene consegnata, il 20 febbraio del 1992, alla Procura di Palermo. La specifica indagine, divenuta nota come “mafia ed appalti”, viene inizialmente sostenuta dal dr. Giovanni Falcone e, dopo la sua morte, dal dr. Paolo Borsellino che la considera non solo un salto di qualità nella lotta a “cosa nostra”, ma anche e soprattutto la causa scatenante della strage di Capaci, dove perdono la vita l’amicomagistrato, la moglie Francesca Morvillo e due agenti di scorta. Tale indagine, tuttavia, non trova pari accoglienza nei responsabili della Procura della Repubblica di Palermo, tanto che si producono una serie di contrasti tra la Procura stessa ed il Comando del ROS in merito alla conduzione delle indagini, contrasti destinati a perdurare nel tempo. In particolare le incomprensioni iniziali si riferiscono a quell’aspetto dell’indagine che prende in esame le connivenze tra “uomini d’onore” da una parte e politici dall’altra, per i quali la Procura di Palermo chiederà ed otterrà l’archiviazione dell’inchiesta il 20 luglio 1992, il giorno dopo la morte di Paolo Borsellino nella strage di via D'Amelio. Da quella parte dell’informativa “mafia e appalti” sopravvissuta, scaturiscono diverse vicende investigative che portano all’arresto dei una serie di imprenditori considerati molto vicini ai vertici di “cosa nostra”, come Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Giuseppe Lipari, Antonio Buscemi, Filippo Salamone ed altri, tutti coinvolti in attività imprenditoriali illecite riconducibili ad interessi mafiosi. Questa tipologia d’indagine, riproposta, d’intesa con le Direzioni Distrettuali Antimafia competenti, anche nel contrasto alle altre forme di delinquenza mafiosa, quali la ‘ndrangheta, lacamorra e la criminalità pugliese, confermerà la sua validità ottenendo eccellenti risultati pratici con lo smantellamento di pericolosi ed agguerriti sodalizi criminali.

La cattura di Riina[modifica | modifica sorgente]

L’attività di contrasto a Cosa nostra sviluppata da parte del ROS è ovviamente consistita anche nella ricerca dei latitanti dell’organizzazione, che ne costituiscono la vera e propria spina dorsale. Il 15 gennaio 1993 il capitano Sergio De Caprio, noto anche come capitano "Ultimo", a capo di una squadra di pochi carabinieri, grazie ad un'accurata attività investigativa, opera l’arresto di Salvatore Riina, capo indiscusso della mafia siciliana. Per tale episodio Mori e De Caprio verranno processati con l’accusa di favoreggiamento nei confronti di Cosa nostra, non per la mancata perquisizione dell’abitazione del Riina dopo il suo l'arresto come i più ritengono, ma per avere omesso di informare la Procura di Palermo che il servizio di osservazione alla casa era stato sospeso. Il dibattimento si concluderà con l'assoluzione sancita dal Tribunale di Palermo perché "il fatto non costituisce reato", con sentenza del 20 febbraio 2006, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch’essa richiesto l’assoluzione - divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006[1]. Nel dettato della sentenza i giudici, prese in considerazioni tutte le testimonianze ed i verbali disponibili, oltre ad assolvere Mori e De Caprio per i reati imputati, ribadiranno che “l'istruzione dibattimentale ha consentito di accertare che il latitante (Riina, ndr) non fu consegnato dai suoi sodali, ma localizzato in base ad una serie di elementi tra loro coerenti e concatenati che vennero sviluppati, in primo luogo, grazie all'intuito investigativo del cap. De Caprio”.

L'accusa di favoreggiamento e l'assoluzione per mancanza di dolo[modifica | modifica sorgente]

Mori è stato rinviato a giudizio dalla procura di Palermo insieme a Sergio De Caprio, entrambi furono poi prosciolti dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di “cosa nostra”. L'indagine era stata avviata dalla procura per accertare gli eventi che avevano portato alla ritardata perquisizione del "covo" di Salvatore Riina. Infatti, dopo l'arresto del boss, i carabinieri della territoriale di Palermo erano pronti a perquisire l'edificio, ma Ultimo ed il ROS, ritenendo di poter proseguire l’indagine in corso ed individuare le attività criminali dei fiancheggiatori del boss arrestato per disarticolare completamente l'organizzazione, chiesero la sospensione della procedura per "esigenze investigative" che fu concessa dalla procura - stando a quanto afferma l'allora procuratore Caselli - «in tanto in quanto fosse garantito il controllo e l' osservazione dell' obiettivo».[2]

Diciotto giorni dopo si scoprì che quell'osservazione era stata sospesa prematuramente dai carabinieri, all'insaputa della procura e senza che fosse stata effettuata alcuna perquisizione. Nel frattempo il "covo" era stato ormai abbandonato dalla famiglia di Riina e completamente svuotato. De Caprio e Mori sostennero che c'era stato un equivoco nella comunicazione con la procura poiché non avevano espresso l'intenzione di sorvegliare il covo in modo continuativo.

Peraltro, come riportato nelle motivazioni della sentenza del processo[1], era ben chiaro dall'inizio, sia ai carabinieri che alla procura, che decidendo di non procedere alla perquisizione, si assumeva un rischio, un rischio investigativo motivato dal raggiungimento di un obiettivo superiore. Lo stesso Tribunale di Palermo sentenzia:

« Questa opzione investigativa (la ritardata perquisizione, ndr) comportava evidentemente un rischio che l'Autorità Giudiziaria scelse di correre, condividendo le valutazioni espresse dagli organi di polizia giudiziaria, direttamente operativi sul campo, sulla rilevante possibilità di ottenere maggiori risultati omettendo di eseguire la perquisizione. Nella decisione di rinviarla appare, difatti, logicamente, insita l'accettazione del pericolo della dispersione di materiale investigativo eventualmente presente nell'abitazione, che non era stata ancora individuata dalle forze dell'ordine, dal momento che nulla avrebbe potuto impedire a “Ninetta” Bagarella (moglie di Riina, ndr), che vi dimorava, o ai Sansone, che dimoravano in altre ville ma nello stesso comprensorio, di distruggere od occultare la documentazione eventualmente conservata dal Riina - cosa che in ipotesi avrebbero potuto fare anche nello stesso pomeriggio del 15 gennaio, dopo la diffusione della notizia dell'arresto in conferenza stampa, quando cioè il servizio di osservazione era ancora attivo - od anche a terzi che, se sconosciuti alle forze dell'ordine, avrebbero potuto recarsi al complesso ed asportarla senza destare sospetti. L'osservazione visiva del complesso, in quanto inerente al solo cancello di ingresso dell'intero comprensorio, certamente non poteva essere diretta ad impedire tali esiti, prestandosi solo ad individuare eventuali latitanti che vi avessero fatto accesso ed a filmare l'allontanamento della Bagarella, che non era comunque indagata, e le frequentazioni del sito. »

I carabinieri definirono la sospensione dell'osservazione una «iniziativa autonoma della quale la Procura non era stata informata». Secondo i sostenitori dell'accusa di favoreggiamento sarebbero esistiti elementi indiziari per ritenere che i capi del ROS avessero mentito alla procura facendole credere che il covo sarebbe stato sorvegliato in modo continuativo. De Caprio ha sostenuto in sua difesa:

« Io non specificai se l' attività di osservazione sul complesso di via Bernini sarebbe o meno proseguita nei giorni successivi... Io non volevo fare sorveglianza... Quella lì era la casa di Riina. Per me, forse ho sbagliato le valutazioni, rimane la casa, l' abitazione del sangue di Riina, non la base logistica della latitanza di Riina. Per me non aveva valore investigativo come non lo ha oggi l' abitazione di Provenzano a Corleone dove ha la moglie e i figli »

Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia un gruppo di affiliati alla mafia entrò indisturbato portando in salvo i parenti del boss, svuotando la cassaforte e verniciando le pareti per cancellare le impronte. Tuttavia, tali dichiarazioni, giudicate “frutto di una ricostruzione certamente autorevole, ma insufficiente per trarne definitive conclusioni” dallo stesso dr. Ingroia[3] – il PM che ha sostenuto l’accusa nel relativo procedimento -, non sono mai state riscontrate nel corso di un vero e proprio dibattimento. Inoltre, nessuno di detti collaboratori ha mai dimostrato di aver personalmente verificato il contenuto della cassaforte o, quantomeno, di conoscere esattamente quanto conservato all’interno della stessa.

Il processo si concluse con l'assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”: infatti la corte, pur ritenendo la sussistenza di una erronea valutazione dei propri spazi di intervento da parte degli imputati, di gravi responsabilità disciplinari per non aver comunicato alla procura la propria intenzione di sospendere la sorveglianza, pur ritenendo che “l'omessa perquisizione della casa” in cui il boss mafioso Riina aveva vissuto gli ultimi anni della sua latitanza, insieme con la sua famiglia, e “l'abbandono del sito sino ad allora sorvegliato hanno comportato il rischio di devianza delle indagini, che, difatti, nella fattispecie si è pienamente verificato, stando alle manifestazioni di sollievo e di gioia manifestate da Bernardo Provenzano e da Benedetto Spera"[2][3] [4] [5], ha stabilito la totale estraneità di Ultimo e Mori dai fatti contestati, giungendo ad una assoluzione con formula piena. La sentenza, non appellata dalla Procura della Repubblica di Palermo - che peraltro aveva anch’essa richiesto l’assoluzione - è divenuta irrevocabile l'11 luglio 2006.

Altre attività d'indagine del ROS[modifica | modifica sorgente]

L’arresto di Riina non fu certamente l’unica attività di rilievo svolta dal ROS, anche se la più eclatante. Sono numerose le indagini sviluppate, anche a livello internazionale, che hanno consentito l’arresto di pericolosi latitanti e l’eliminazioni di temibili organizzazioni criminali transnazionali. Fra le numerose operazioni vanno sicuramente citate quelle conclusesi con la cattura del boss Salvatore Cancemi, di Angelo Siino, indicato quale Ministro dei Lavori Pubblici di “cosa nostra”, dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, lo smantellamento del clan dei Cuntrera-Caruana e quello di Gaetano Fidanzati ed i suoi figli, veri snodi del traffico della droga tra l’Europa e le Americhe.

Dopo il ROS[modifica | modifica sorgente]

Nel 1999, il Comando generale dell’Arma dei carabinieri decide di sostituire Mori al comando del ROS, destinandolo a comandare la "Scuola ufficiali carabinieri" di Roma. Il trasferimento del generale viene definita una “promozione”, in quanto destinato al comando di un Reparto di prestigio e sicuro trampolino di lancio per un’ancor più brillante carriera. Tuttavia uguale considerazione non viene riservata ad alcuni dei più stretti collaboratori di Mori che, nello stesso periodo, o in altri immediatamente successivi, lasciano il ROS per l’impiego in incarichi certamente meno prestigiosi e rilevanti. Dura due anni il periodo alla Scuola ufficiali e nel gennaio del 2001 il generale Mori diventa comandante della "Regione carabinieri Lombardia", incarico che manterrà fino al 1 ottobre 2001, quando lascerà definitivamente l’Arma dei carabinieri.

Direttore del Sisde[modifica | modifica sorgente]

Il 1 ottobre del 2001 Mario Mori viene nominato prefetto e direttore del Sisde, il Servizio Informazioni per la Sicurezza Democratica, che verrà da lui diretto sino al 16 dicembre 2006. Questo periodo è caratterizzato dalla crisi originata dall’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001 e dal conseguente accentuarsi del contrasto alle iniziative terroristiche portate essenzialmente dal fondamentalismo islamico. Il Sisde contribuisce in quel periodo ed in maniera significativa ad evitare che l’Italia diventi oggetto di clamorose azioni stragiste che invece colpiscono altre nazioni occidentali, individuando soggetti ed organizzazioni operanti in Italia collegati con i gruppi rifacentesi ad Al Qaeda, sventandone le iniziative illegali. Contestualmente il Servizio controlla il panorama criminale italiano e contribuisce in maniera determinante a frustrare, con l’operazione “Tramonto” i cui esiti vengono messi a disposizione dell’Autorità giudiziaria milanese, un tentativo di ricostituzione delle Brigate Rosse. Significativa anche la cattura all’estero, dopo una difficoltosa ricerca in diversi paesi del Nord-Africa, di Rita Algranati, esponente delle Brigate Rosse, uno degli ultimi responsabili dell’omicidio dell'on. Moro ancora in libertà.

Dopo il Sisde[modifica | modifica sorgente]

Dall’estate del 2008 fino al giugno del 2013, il prefetto Mori ha svolto attività di consulenza nel settore della sicurezza pubblica per conto dell’on. Gianni AlemannoSindaco di Romapro tempore.

Vicende attuali[modifica | modifica sorgente]

Favoreggiamento a Provenzano: assolto in primo grado[modifica | modifica sorgente]

Mori il 17 luglio 2013, è stato assolto dal Tribunale di Palermo[6], insieme al colonnello Mauro Obinu (condannato in primo grado a oltre sette anni di reclusione in un diverso procedimento per traffico di droga, assieme al generale Ganzer, succeduto a Mori alla guida del ROS[7]), dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano, impedendone la cattura nel 1995. Secondo il testimone d'accusa, il colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da "cosa nostra" subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia. Nel processo si è poi aggiunta la testimonianza di Massimo Ciancimino, il quale riferisce di contatti, peraltro già confermati in più sedi giudiziarie da Mori e da un altro ufficiale dei Carabinieri, con il padre Vito Ciancimino. Secondo il Ciancimino, per instaurare una trattativa con “cosa nostra” così da giungere ad una sospensione della strategia stragista attuata all’epoca, secondo Mori ed il suo dipendente, per acquisire notizie sull'organizzazione mafiosa e realizzare la cattura dei grandi capi mafia.

Il 20 aprile 2012 i giudici del processo celebrato a Palermo contro il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello dell'Arma Mauro Obinu per favoreggiamento alla mafia, hanno ammesso a deporre su richiesta dell'accusa la vedova del giudice Paolo Borsellino, Agnese Piraino Leto, e Alessandra Camassa e Massimo Russo, due ex colleghi del magistrato assassinato dalla mafia[8].

Il 24 maggio 2013 il PM di Palermo Antonino Di Matteo ha chiesto 9 anni di reclusione per il generale Mori e 6 anni per il Colonnello Mauro Obinu, riguardo al processo sul presunto favoreggiamento aggravato a Cosa Nostra, per il mancato arresto di Bernardo Provenzano, nell'ottobre 1995.[9]

Il 17 luglio 2013 la IV Sezione Penale del Tribunale di Palermo ha pronunciato la seguente sentenza: Il Tribunale di Palermo, visti gli articoli 378 e 530 del Codice di procedura penale, assolve Mori Mario e Obinu Mauro dell'imputazione ai medesimi ascritta perché il fatto non costituisce reato. Visto l'articolo 207 del Codice di procedura penale ordina la trasmissione di copia della presente sentenza delle deposizioni rese da Ciancimino Massimo e da Riccio Michele all'ufficio del Procuratore della Repubblica in sede per quanto di sua competenza[6]. Il Tribunale ha quindi assolto con formula piena Mori e Obinu dall'accusa di aver favorito la latitanza di Bernardo Provenzano e ha ravvisato, a carico dei due principali testi dell'accusa, Massimo Ciancimino e Michele Riccio, ai sensi dell'art. 207[10] del Codice di Procedura Penale, indizi del reato previsto dall’articolo 372[11] del Codice Penale (falsa testimonianza)[12]. Immediatamente dopo la sentenza, intervistato dai numerosi giornalisti presenti, il PM Vittorio Teresi si è detto amareggiato per l'esito del processo, annunciando che la Procura proporrà appello verso una sentenza che non condivide ma che rispetta[6][13]. Esponenti dell'associazione Agende Rosse, presenti in aula, hanno contestato in maniera decisa la sentenza[6][12].

Inserito da Cristina Genna Blogger

 

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