Leggenda dei Lupi in Valle D'Aosta

Leggenda dei Lupi in Valle D'Aosta

Ce n'erano, un tempo, di lupi in valle d'Aosta! Vivevano a branchi, nei boschi, o si aggiravano isolati nei pressi di stalle e di ovili, sempre in agguato, sempre pronti a lanciarsi sulla preda e sbranarla.

 
Scorrazzavano per tutta la vallata, assalivano pecore e capre e, all'occasione, si buttavano sopra i cristiani. Di qualche viandante, sorpreso dalle fiere, non si ritrovavano, a volte, che gli abiti intrisi di sangue. E se ne raccontavano di storie...
 
Questa è della valle del Lys.
 
C'era un uomo - lo chiamavano der Ronker - che possedeva una casa ai piedi della Ranzola, al limite del bosco. Ci abitava ben poco, in verità. Durante la brutta stagione lasciava la valle e faceva l'ambulante, girovagando con la sua mercé di paese in paese. D'estate saliva con una piccola mandria a Skerpie, in Valdobbia, e vi restava, assieme alla figlia, fino ad autunno inoltrato.
 
Un anno, prese ad aggirarsi intorno alla baita un lupo di eccezionale grandezza. Compariva all'improvviso, a qualsiasi ora del giorno; di notte faceva risuonare il suo ululato per tutta la vallata.
 
Der Ronker aveva un cane da guardia forte e coraggioso, che più d'una volta aveva affrontato la fiera a corpo a corpo, sostenendone l'assalto. Il padrone accorreva in suo aiuto, imbracciando lo schioppo, e costringeva la belva alla fuga; ma non era mai riuscito a colpirla.
 
«Se non l'ammazzo, un giorno o l'altro quella bestiaccia mi porta via un vitello», si lamentava, curando le ferite del suo cane.
 
Ma il lupo non faceva la posta ai vitelli: teneva sempre d'occhio la ragazza. Una volta che la sorprese sola nella baita, l'aggredì, e dilaniò orrendamente il suo corpo, divorandole il seno. Il padre, a sera, rincasando col cane, trovò i poveri resti in una pozza di sangue.
 
«Ti ucciderò, maledetto!», promise a sé stesso, ricomponendo le spoglie straziate.
 
Ma, compiuto l'atroce delitto, la belva era scomparsa dalla valle.
 
L'uomo riprese tristemente la sua vita: girava con le sue mercanzie nella brutta stagione, d'estate saliva alla baita con le mucche.
 
Passarono così alcuni anni. Una sera d'inverno der Ronker si trovava in Germania. Era appena entrato in una locanda, dove aveva intenzione di passare la notte, quando il cane, che gli era inseparabile compagno nei suoi viaggi, si avventò sull'albergatore con un ringhio furioso. A stento il padro­ne gli impedì di azzannarlo alla gola. Il viso dell'uomo si era fatto di un pallore mortale.
 
«Non so davvero che cos'abbia preso a questa bestia», si scusò l'ambulante. «Si direbbe che abbia con voi qualche conto in sospeso.»
 
L'altro annuì, asciugandosi con la mano il sudore che gì'imperlava la fronte.
 
«Ci siamo scontrati in Valdobbia.»
 
«In Valdobbia?! Siete stato in Valdobbia?», domandò insospettito il mercante.
 
«Per mia e per vostra disgrazia, purtroppo. Ma sedete, vi prego: perché è una storia lunga, quella che adesso dovrete ascoltare. Tanto tempo è passato, da quando ebbe inizio. Ero giovane, allora; giovane e certo inesperto. Fatto sta che feci un torto a due streghe, che si vendicarono, trasformandomi in lupo. "Come lupo vivrai, mangiando solamente carne viva", mi dissero, "né lascerai queste spoglie, finché non riuscirai a divorare il seno a una fanciulla." Per anni ed anni andai per le campagne e per i boschi, torturato dal freddo e dalla fame, senza avere l'ardire di accostarmi a una casa o a un paese. Poi, quell'estate, in Valdobbia, vi vidi salire alla baita assieme a vostra figlia, e incominciai a spiarvi, perché dovevo sorprenderla sola. Avevo orrore del delitto che stavo per commettere, ma fui costretto a farlo, per togliermi di dosso quella pelle. Tornato uomo, fuggii lontano, per dimenticare. Ma ora vedete, il destino! Voi siete qui, e il vostro cane, al fiuto, mi ha riconosciuto. In Valdobbia faceva buona guardia e, quando c'era lui, la vostra ragazza era al sicuro. Ci siamo azzuffati tante volte, ho sentito l'odore del suo sangue. Non avrei mai pensato di incontrarlo ancora, né che, in ogni caso, mi avrebbe smascherato. Ma ora sono contento che la cosa sia andata così, perché mi sono liberato del mio greve segreto.»  
 
 
 
Quel lupo era un uomo, ma come fare a saperlo?
 
Ce n'erano tanti di lupi assetati di sangue! Proprio per quello piacevano al diavolo e alle streghe. Quando passava la seun-goga, ce n'era sempre in mezzo qualcuno che ululava, e a volte lasciava le impronte delle zampe sul terreno, mescolate con quelle delle altre bestie immonde in cui si era trasformata quella mala genìa.
 
Così la gente si ritirava presto, la sera, per non far brutti incontri. Ma poteva capitare che uno fosse sorpreso dalle tenebre, mentre era per strada: e non c'era davvero di che stare allegri.
 
Una volta, un tale di Torgnon rincasava con un carico di vino. Aveva fatto tardi oltre il previsto, e non aveva con sé né un fucile né quell'accetta particolare che era l'arma più adatta per difendersi dall'attacco improvviso di una fiera: e si chiamava, appunto, scure del lupo. Era una piccola ascia con la lama dal taglio diritto, che aveva sopra l'impugnatura un gancetto di ferro, grazie al quale poteva essere appesa alla cintura o al colletto della giubba o del mantello, dietro la nuca. La lama, che all'attaccatura misurava circa quattro centimetri, si allargava di un altro paio all'estremità, dove una piccola croce patente traforava il metallo.
 
Quanti, per una ragione o per l'altra, erano costretti a star fuori casa la notte e i giovanotti che passavano da una frazione all'altra, per trascorrere in compagnia le lunghe sere d'inverno, portavano sempre la scure con sé. Ma quell'uomo di Torgnon quella volta non l'aveva presa.
 
«Che Dio me la mandi buona!», pensava, incitando il suo mulo.
 
Mancava ormai poco al paese, quando improvvisamente da un bosco sbucò fuori un lupo a sbarrargli il cammino. Fermo in mezzo al sentiero, con gli occhi che brillavano nel buio, rimase a fissare il viandante, pronto a scagliarglisi contro.
 
Il mulo arretrò spaventato; all'uomo le gambe si piegarono in due. Era così sconvolto che non sapeva più quel che faceva. Incominciò a parlare alla belva, quasi ci fosse una qualche possibilità di convincerla a lasciarlo passare col suo vino.
 
«Fermo lì, stammi a sentire. Facciamo un patto, lupo: tu ti tiri da parte buono buono, e io, come arrivo a Torgnon, ti do il montone. Sì, il montone... Parola mia! Lì ne hai da mangiare, è bello grasso, è la bestia più in carne della stalla. Su, da bravo, fatti in là, ti prego: ti assicuro che ci guadagni nel cambio... Che cosa posso dirti ancora, lupo... La mia casa è la prima del paese... ormai ci siamo: non farmi del male.»
 
Parlava, parlava; e la fiera lì, ferma ad ascoltare. A un tratto, quasi avesse davvero capito ed accettasse il baratto, si tolse dalla strada e, una volta che l'uomo fu passato, prese a seguirlo passo passo, finché giunse al villaggio. Lasciò che entrasse in casa, e restò ad attendere nell'aia, senza dare alcun segno di impazienza.
 
Come fu nella stalla col suo mulo, l'uomo tirò un gran sospiro di sollievo; non gli pareva vero d'essere tutto intero.
 
«Questa volta l'ho scampata bella: non so come ho fatto a salvarmi la pelle.» E raccontò alla moglie, per filo e per segno, la storia del lupo cui aveva promesso il suo montone.
 
«Non avrai intenzione di darglielo davvero», disse la donna, vedendolo avvicinarsi all'animale.
 
«Certo che glielo do: quello era il patto. Mi ha lasciato passare, senza farmi un sol graffio, ed avrebbe potuto sbranarmi. Non ti pare che gli debba qualcosa?»
 
«Se stupido è stato, che stupido rimanga. Adesso, qui, non può più farti nulla. E quella bestia vale dei bei soldi.»
 
«Valga quello che vuole: ogni promessa è debito», tagliò corto il marito, spingendo il montone fuori dalla stalla. E rimase a guardare il lupo che se lo portava via nella notte.
 
Di lì a qualche giorno, quel buon uomo dovette di nuovo mettersi in strada, per sbrigare ad Aosta certi affari. Era ancora in vista di Torgnon, quando si vide venire incontro uno che non era del posto e teneva a cavezza una vitella così ben pasciuta che anche solo guardarla era un piacere.
 
«Giusto voi cercavo», disse lo sconosciuto, «perché, quando ho un debito da saldare, non mi piace tirarla per le lunghe. Ritirate nella stalla questa mucca: ve la do per ripagarvi del montone che mi avete lasciato l'altra notte.»
 
Naturalmente, anche quella volta c'era di mezzo una strega. Per un maleficio quel tale, trasformato in lupo, era condannato a rimanere bestia, finché qualcuno non l'avesse, sotto quelle spoglie, trattato come se fosse un vero uomo: il che era accaduto, quando il contadino gli aveva proposto un patto, e aveva poi mantenuto la promessa fattagli nel bosco.
 
Insomma, nell'affare ci guadagnarono tutt'e due. Quello di Torgnon, però, s'era preso uno spavento da non dimenticarsi facilmente: e si guardò bene dal farsi ancora sorprendere per strada dalla notte.
 
 
 
Di solito i lupi si facevano arditi quando calava il buio. Però, qualche volta, assalivano anche di giorno, magari mentre si era al lavoro, in campagna. Che fare allora? Si piantava là tutto e si scappava via: e chi correva più svelto era il più bravo. Così quella volta, ad Ayas... Ma è meglio incominciare da principio.
 
Il curato di Ayas possedeva un bel po' di prati e, quand'era il momento della fienagione, chiamava sette o otto del paese, perché venissero a falciargli l'erba: e pagava quegli uomini a giornata.
 
Quella mattina, contrattata la paga, precisò:
 
«I soldi li avrete soltanto se lavorerete finché il sole non se ne è andato giù. Altrimenti, non vi darò un bel niente. D'accordo?».
 
I contadini annuirono contenti, perché il compenso promesso era buono; e ci diedero dentro tutto il giorno a lavorare il fieno.
 
Il sole stava quasi per calare dietro i monti, quando un lupo, risalita la china dalla parte del torrente, sbucò all'improvviso, costringendo alla fuga i braccianti.
 
Quando furono in salvo in paese ed ebbero ripreso un poco il fiato, decisero di presentarsi tutti assieme in canonica a raccontare come era andata la cosa. «Mai vista una bestiaccia così grossa, signor curato. L'abbiamo scampata bella, grazie a Dio.» «Ringraziatelo pure, perché vi è andata bene... almeno per un verso.»
 
«Come sarebbe?!».
 
«Che volete, è la vita: oggi chi ci guadagna sono io, domani andrà meglio per voi.»
 
«Signor curato, che intendete dire?»
 
«Non ricordate? Eravamo d'accordo che avrei pagato, a condizione che non smetteste di lavorare fin dopo il tramonto. Ve la siete filata, quando il sole non era ancora andato giù.»
 
«Non per colpa nostra.»
 
«Nessuno dice che sia colpa vostra; ma i patti sono patti. Dunque, per oggi non vi devo niente. E, per domani... le condizioni sono sempre quelle.»
 
Abbassarono il capo e se ne andarono via mogi, perché era chiaro che non potevano avanzar pretese.
 
Il giorno dopo si ripeté la storia. Ci diedero dentro a falciare senza tirare il fiato, e una mezz'ora prima che il sole calasse, ecco di nuovo il lupo a disturbarli.
 
Colti ancora una volta di sorpresa, i contadini fuggirono di corsa, abbandonando anzitempo il lavoro.
 
Con il curato, niente da fare. Non scucì un centesimo.
 
«Domani, se non mancherete di nuovo alla parola, vedrò, eventualmente, di arrotondar la cifra.»
 
Se ne andarono come cani bastonati e, il giorno dopo, prima di mettere mano alle falci, fecero il punto della situazione.
 
«Se continua così, qui si fatica per ingrassare il prete. Con quella bestiaccia in giro, può capitarci anche oggi quel che è successo ieri e l'altro ieri: a meno che non ci trovi pronti a farle fronte.»
 
Decisero che, a turno, uno di loro stesse di vedetta, appostato su un albero, per poter avvistare il lupo di lontano, se mai si fosse di nuovo fatto vivo, e preparargli adeguata accoglienza.
 
Per tutto il giorno non accadde nulla; ma, un'ora prima che il sole toccasse l'orizzonte, quello che era di guardia vide il curato uscire di canonica e prendere, con fare circospetto, il sentiero che portava al torrente. Incuriosito, rimase a guardare.
 
Giunto in riva all'acqua, il prete si fermò; si levò la tonaca, tracciò un cerchio sul suolo con una bacchetta, girando su se stesso, si rotolò tre volte nella sabbia del greto e... diventò lupo.
 
L'uomo saltò giù dall'albero e corse ad avvisare gli altri.
 
È qui che arriva: è il curato, è un mago.»
 
Non volevano crederci.
 
«Ad ogni buon conto, quella bestiaccia avrà quel che si merita.»
 
Si appostarono, preparandosi a ricevere la belva.
 
Il lupo, risalita la china, fece irruzione nel prato come gli altri giorni, sicuro che i contadini, alla sua vista, prendessero la fuga, cercando salvezza in paese. Ma quella volta la sorpresa fu sua, perché li trovò ad aspettarlo con le falci in pugno e, per quanto scappasse in tutta fretta, poco mancò che uno di loro non gli mozzasse la zampa anteriore.
I braccianti ripresero il lavoro, continuandolo sino al tramonto. Quindi si presentarono in canonica, dove trovarono il prete a letto, col volto pallido e l'aria sofferente.
 
«Che diamine, signor curato», dissero i contadini, fingendo meraviglia.
 
«Niente di grave: sono un po' indisposto.»
 
«Potrete comunque pagarci, perché oggi abbiamo lavorato secondo i vostri patti, anche se quel bastardo d'un lupo ha cercato di spaventarci di nuovo.»
 
«Ci mancherebbe che non vi pagassi», ribatté il prete. «Quel che è giusto è giusto.» E, preso un sacchettino di monete, incominciò a contare.
 
«Signor curato, dicono che non si paga mai con la sinistra: non ci vorrete fare questo torto», osservò quello che era di vedetta, quando lui si era trasformato in 
 
lupo. Il prete, a disagio, mostrò l'altra mano fasciata.
 
È che oggi mi sono ferito alla destra. Vogliate scusarmi, figlioli.» «Certo, signor curato: e anche più facilmente, se, come avevate promesso, arrotonderete il gruzzolo di ognuno, con quel che ci dovevate ieri e avant'ieri», disse il bracciante, guardandolo dritto negli occhi. «Mica per altro, sapete: per farci dimenticare più in fretta lo spavento che ci ha messo in corpo quel lupaccio. Anche se, oggi, ha avuto lui pure la sua parte. Perché per poco non si ritrova con una zampa mozza: la destra anteriore, capite?» Il curato pagò, senza aggiunger parola.  
 
 
 
Non si poteva sapere chi c'era dentro la pelle di un lupo. Ma, mannari o no, facevano tutti paura. E i lupi veri erano così numerosi che l'Intendente di Aosta continuava a lanciare proclami, perché al piano e sui monti si organizzassero battute contro quelle belve, da cui era infestata la regione.
 
Proclami e battute servivano a poco. Se non avevano trovato nei boschi di che soddisfare la fame, i lupi entravano persino nei villaggi, e si aggiravano tra le case, nel buio.
 
Una volta, uno si spinse fino a Saint-Vincent.
 
Il paese sembrava addormentato e per strada non c'era anima viva, perché la gente, di notte, si rintanava dentro.
 
Il lupo avanzava cautamente, fiutando le peste di uomini e bestie.
 
Ad un tratto, un contadino uscì da una stalla. La belva si avventò sulla preda: ma non poteva capitare peggio. Quello era il più gagliardo dei paesani, aveva riflessi pronti e muscoli d'acciaio. Agguantò l'animale alla gola e, stringendo la morsa sin quasi a soffocarlo, con un balzo rientrò nella stalla, trascinandovi il lupo stordito.
 
«Adesso ti sistemo per le feste», disse, legandogli al collo un campanaccio da mucca, che era lì appeso al muro. «E stiamo a vedere che cosa succede di nuovo.»
 
Ne successero proprio delle belle.
 
Il lupo, buttato fuori con una pedata, si ritrovò rintronato nella strada, voglioso solamente di fuggire. Si scosse, ed il sonaglio incominciò a tintinnare. Spaventato, fece un gran balzo: e quello scampanò a tutt'andare.
 
Assordata dal frastuono e pazza di paura, la belva continuò a correre, ululando con quanto fiato aveva, per invocare aiuto. Gli altri lupi risposero al richiamo e, lasciate le tane, si unirono alla folle corsa, riempiendo di urla la notte. Giungevano a frotte, da ogni vallata, sì che il corteo si andava man mano ingrossando, e nulla poteva ormai arrestarne lo slancio. Senza fermarsi, passò per boschi e paesi, risalendo la valle, su su, fino ai pascoli alti e ai ghiacciai delle vette.
 
Valicate le Alpi con il suo seguito di belve ululanti, il lupo con il campanaccio continuò a correre, finché gli scoppiò il cuore. Ma, quando cadde, già, ad uno ad uno, aveva seminato sui suoi passi i compagni, stremati da fame, fatica e spavento.
 
Ecco perché, di tanti che erano, non è rimasto un sol lupo in tutta la valle d'Aosta.

Inserito da Cristina Genna Blogger

 

Guest blogging Italia

articolo letto

totale visite sito web prima pagina 

conta tempo connessione internet

 

 

 

 

contatore

totale click accessi sito web la voce del web