Figlio di un carabiniere (il padre Romano, che partecipò alle campagne del prefetto Mori, nel 1955 fu nominato vice comandante generale dell'Arma), entrò nell'Esercito partecipando alla Guerra in Montenegro nel 1941 come sottotenente; divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942 e nello stesso anno passò all'Arma dei Carabinieri (dove già prestava servizio il fratello Romolo[5]) in servizio permanente effettivo, completando gli studi di giurisprudenza.
Come primo incarico viene mandato a comandare la caserma di San Benedetto del Tronto, dove rimane fino al giorno della proclamazione dell'armistizio, 8 settembre 1943.[6]. A causa del suo rifiuto di collaborare nella caccia ai partigiani, viene inserito nella lista nera dai nazisti, ma riesce a fuggire prima che le SS riescano a catturarlo[7].
Dopo l'armistizio entrò nella Resistenza, operando in clandestinità nelle Marche, dove organizzò i gruppi per fronteggiare i tedeschi. Nel dicembre del 1943 entrò tra le linee nemiche con le truppe alleate, ritrovandosi in una zona d'Italia già liberata[7]. Viene inviato aRoma per seguire gli alleati nel loro ingresso e per provvedere alla sicurezza della Presidenza del Consiglio dei ministri dell'Italia liberata.
Dopo la guerra fu inviato a comandare una tenenza a Bari, dove riesce a conseguire 2 lauree; una in giurisprudenza e l'altra inscienze politiche[8] (per quest'ultima segue i corsi di Laurea tenuti dall'allora docente Aldo Moro). A Bari conosce Dora Fabbo, la ragazza che nel 1945 diventerà sua moglie.
Arriva poi in Campania, avendo per prima destinazione il Comando Compagnia di Casoria (Napoli), dove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Durante la permanenza a Casoria, nasce la figlia Rita. Proprio in questa lotta si distinse e nel1949 fu, pertanto, inviato in Sicilia[9], al Comando forze repressione banditismo, agli ordini del colonnello Ugo Luca, formazione interforze costituita per eleminare le bande di criminali nell'isola, come quella del bandito Salvatore Giuliano; qui comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza come quello di Capo di stato maggiore, meritando peraltro una Medaglia d'Argento al valor militare[10].
Nel novembre del 1949, nasce a Firenze il figlio, Nando dalla Chiesa. Il 23 ottobre 1952, sempre a Firenze, nasce la terza figlia, Simona dalla Chiesa.
Da Capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio[11]. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, che Dalla Chiesa conobbe in tale occasione e che in seguito fu anch'egli ucciso dalla mafia[7].
Gli incarichi a Milano e Roma[modifica | modifica sorgente]
Dopo il periodo in Sicilia, venne trasferito prima a Firenze, successivamente a Como e quindi presso il comando della Brigata di Roma.
Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.
Il ritorno in Sicilia[modifica | modifica sorgente]
Dal 1966 al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Iniziò particolari indagini per contrastare Cosa Nostra, che nel 1966 e1967 sembrava aver abbassato i toni dello scontro che si era verificato nei primi anni '60. Nel gennaio 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni, oltre che la cittadinanza onoraria di Gibellina eMontevago[12].
Nel 1969 riesplode in maniera evidente lo scontro interno tra le famiglie mafiose con la strage di Viale Lazio, nella quale perse la vita il boss Michele Cavataio. Dalla Chiesa intuì la situazione che andava configurandosi, con scontri violenti per giungere al potere tra elementi mafiosi di una nuova generazione, pronti a lasciare sulla strada cadaveri eccellenti.
Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi, promettendogli materiale, che lasciava intendere scottante, sul caso Mattei [13]. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, sotto la direzione di Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia mentre iniziava ad intuire le connessioni tra mafia ed alta finanza. Nel 1971 si trova ad indagare sulla morte del procuratore Pietro Scaglione.
Il risultato di queste indagini fu il dossier dei 114 (1974): come conseguenza del dossier, scattarono decine di arresti dei boss[10] e, per coloro i quali non sussisteva la possibilità dell'arresto, scattò il confino.
L'innovazione voluta, però, da Dalla Chiesa fu quella di non mandare i boss al confino nelle periferie delle grandi città del Nord Italia; pretese invece che le destinazioni fossero le isole di Linosa, Asinara e Lampedusa[7].
In Piemonte, la lotta alle Brigate Rosse[modifica | modifica sorgente]
Nel 1973 fu promosso al grado di generale di brigata e nel 1974 divenne Comandante della Regione Militare di Nord-Ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta eLiguria[10].
Si trovò così a dover combattere il crescente numero di episodi di violenza portati avanti dalle Brigate Rosse ed il loro crescente radicarsi negli ambienti operai. Per fare ciò, utilizzò i metodi che già aveva sperimentato in Sicilia, infiltrando alcuni uomini all'interno dei gruppi terroristici al fine di conoscere perfettamente i loro schemi di potere interni[14][15].
Nell'aprile del 1974 viene rapito dalle Brigate Rosse il giudice genovese Mario Sossi, con il quale le BR volevano barattare la liberazione di 8 detenuti della Banda 22 ottobre[16].
Ad Alessandria una rivolta dei detenuti, guidata dal gruppo Pantere Rosse, che aveva preso degli ostaggi, viene stroncata dal procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio Della Veneria, e dallo stesso Dalla Chiesa, i quali ordinano un intervento armato che si conclude con l’uccisione di due detenuti, di due agenti di custodia, del medico del carcere e di una assistente sociale[senza fonte].
Dopo aver selezionato dieci ufficiali dell'arma, Dalla Chiesa creò nel maggio del 1974 una struttura antiterrorismo, denominata Nucleo Speciale Antiterrorismo, con base a Torino.
Nel settembre del 1974 il Nucleo riuscì a catturare a Pinerolo Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco e fondatori delle Brigate Rosse, grazie anche alla determinante collaborazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra"[5] dirigendo le indagini dall'attuale Comando Provinciale Carabinieri di Torino edificio unito alla Scuola allievi Carabinieri "Cernaia"
Nel febbraio del 1975 Curcio riesce ad evadere dal carcere di Casale Monferrato, grazie ad un intervento dei compagni brigatisti, capeggiati dalla moglie dello stesso Curcio,Margherita Cagol[17].
Sempre nel 1975, i Carabinieri intervennero nel rapimento di Vittorio Gancia, uccidendo nel conflitto a fuoco Margherita Cagol.
Nel 1976 venne sciolto il Nucleo Antiterrorismo, a seguito delle critiche ricevute per i metodi utilizzati nell'infiltrazione degli agenti tra i brigatisti e sulla tempistica dell'arresto di Curcio e Franceschini[5].
Nel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena e, passato al grado di Generale di Divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale alle dirette dipendenze del Ministro dell'Interno Virginio Rognoni, creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini diAldo Moro[5].
La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione").
Dopo la morte di Aldo Moro, Dalla Chiesa decise di stringere il cerchio intorno ai vertici delle Brigate Rosse.
Nel frattempo, nel febbraio del 1978, Dalla Chiesa aveva perso la moglie Dora, stroncata in casa a Torino da un infarto. Per il Generale fu un duro colpo, che lo lasciò per qualche tempo nella disperazione e lo costrinse successivamente a dedicarsi completamente alla lotta contro i brigatisti[5][7].
In una perquisizione successiva a due arresti (Lauro Azzolini e Nadia Mantovani) in via Montenevoso a Milano, vengono ritrovate alcune carte riguardanti Aldo Moro, tra le quali un presunto memoriale dello stesso Moro[5].
Nel 1979 viene trasferito nuovamente a Milano per comandare la Divisione Pastrengo sino al dicembre 1981.
Particolarmente importanti furono i successi contro le Brigate Rosse, ottenuti a seguito della sanguinosa irruzione di via Fracchia, e l'arresto di Patrizio Peci[18] (che con le sue rivelazioni contribuì a sconfiggere le BR[19]) e Rocco Micaletto.
Il 16 dicembre 1981 viene promosso Vice Comandante Generale dell'Arma, la massima carica per un ufficiale dei Carabinieri[5] (all'epoca il Comandante Generale dell'Arma doveva necessariamente provenire, per espressa disposizione di legge, dalle fila dell'Esercito). Rimane in tale carica fino al 5 maggio 1982.
Prefetto in Sicilia per combattere Cosa Nostra[modifica | modifica sorgente]
Nel 1982 viene nominato dal Consiglio dei Ministri prefetto di Palermo e posto contemporaneamente in congedo dall'Arma. Il tentativo del governo è quello di ottenere contro Cosa Nostra gli stessi risultati brillanti ottenuti contro le Brigate Rosse. Dalla Chiesa inizialmente si dimostrò perplesso su tale nomina, ma venne convinto dal ministro Virginio Rognoni, che gli promise poteri fuori dall'ordinario per contrastare la guerra tra le cosche, che insanguinava l'isola.
Il 12 luglio nella cappella del castello di Ivano-Fracena, in provincia di Trento, sposò in seconde nozze Emanuela Setti Carraro.
A Palermo, dove arrivò ufficialmente nel maggio del 1982, lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello Stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì").
In una intervista concessa a Giorgio Bocca, il Generale dichiarò ancora una volta la carenza di sostegno e di mezzi, necessari per la lotta alla mafia, che nei suoi piani doveva essere combattuta strada per strada, rendendo palese alla criminalità la massiccia presenza di forze dell'ordine[20]; inoltre nell'intervista Dalla Chiesa dichiarò:
« Oggi mi colpisce il policentrismo della Mafia, anche in Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la Mafia geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la Mafia è forte anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il consenso della Mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se dietro non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?[20] » |
Tali dichiarazioni provocarono in forma ufficiale il risentimento dei Cavalieri del Lavoro catanesi Carmelo Costanzo, Mario Rendo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro (i proprietari delle quattro maggiori imprese edili catanesi, alle quali si riferiva Dalla Chiesa) e diedero inizio ad una polemica con l'allora presidente della Regione Mario D'Acquisto, che invitò pubblicamente Dalla Chiesa a specificare il contenuto delle sue dichiarazioni e ad astenersi da tali giudizi qualora tali circostanze non fossero state provate[21].
Nel luglio del 1982 Dalla Chiesa dispose che il cosiddetto "rapporto dei 162" fosse trasmesso alla Procura di Palermo[22]: tale rapporto portava la «firma congiunta» di polizia ecarabinieri e ricostruiva l'organigramma delle Famiglie mafiose palermitane attraverso scrupolose indagini e riscontri[23].
Per la prima volta, con una telefonata anonima fatta ai carabinieri di Palermo a fine agosto, Cosa Nostra sembrò annunciare l'attentato al Generale, dichiarando che, dopo gli ultimi omicidi di mafia, «l'operazione Carlo Alberto è quasi conclusa, dico quasi conclusa»[5][24].
L'omicidio[modifica | modifica sorgente]
Per approfondire, vedi Strage di via Carini. |
« Qui è morta la speranza dei palermitani onesti. » |
(Scritta affissa il giorno seguente in prossimità del luogo dell'attentato[25]) |
Alle ore 21.15 del 3 settembre 1982, la A112 bianca sulla quale viaggiava il Prefetto, guidata dalla moglie Emanuela Setti Carraro, fu affiancata, in via Isidoro Carini a Palermo, da una BMW, dalla quale partirono alcune raffiche di Kalashnikov AK-47, che uccisero il Prefetto e la moglie[5][26].
Nello stesso momento l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta, Domenico Russo, che seguiva la vettura del Prefetto, veniva affiancata da una motocicletta, dalla quale partì un'altra raffica che uccise Russo.
Per i tre omicidi sono stati condannati all'ergastolo come mandanti i vertici di Cosa Nostra: i boss Totò Riina, Bernardo Provenzano, Michele Greco, Pippo Calò, Bernardo Brusca e Nenè Geraci[27].
Nel 2002 sono stati condannati in primo grado, quali esecutori materiali dell'attentato, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia entrambi all'ergastolo, Francesco Paolo Anzelmo eCalogero Ganci a 14 anni di reclusione ciascuno[5][28].
I funerali e la reazione dell'opinione pubblica[modifica | modifica sorgente]
Il giorno dei suoi funerali, che si tennero nella chiesa palermitana di San Domenico, una grande folla protestò contro le presenze politiche, accusandole di averlo lasciato solo. Vi furono attimi di tensione tra la folla e le autorità, sottoposte a lanci di monetine e insulti al limite dell'aggressione fisica. Solo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini venne risparmiato dalla contestazione[29].
La figlia Rita pretese che fossero immediatamente tolte di mezzo le corone di fiori inviate dalla Regione Siciliana (era presidente Mario D'Acquisto) e volle che sul feretro del padre fossero deposti il tricolore, la sciabola e il berretto della sua divisa da Generale con le relative insegne[30].
Dell'omelia del cardinale Pappalardo, fecero il giro dei telegiornali le seguenti parole (citazione di un passo di Tito Livio), che furono liberatorie per la folla,[31] mentre causarono imbarazzo tra le autorità (il figlio Nando le definì "una frustata per tutti"):
« Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici [..] e questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera la nostra Palermo[32] » |
Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valore civile alla memoria.
Il 5 settembre al quotidiano La Sicilia arrivò un'altra telefonata anonima, che annunciò: "L'operazione Carlo Alberto è conclusa"[29].
Oggi il corpo di Carlo Alberto dalla Chiesa riposa nel Cimitero della Villetta, a Parma.
Dalla Chiesa, Andreotti e il caso Moro[modifica | modifica sorgente]
Dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman i carabinieri di Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro ed un memoriale dello stesso[33].
Nel 1990, durante alcuni lavori, furono rinvenuti nell'appartamento di via Monte Nevoso altri documenti riguardanti Moro, nascosti in un doppio fondo di una parete. Seguirono alcune polemiche sulle circostanze in cui nel 1978 i carabinieri avevano condotto l'inchiesta e le perquisizioni.
Il memoriale di Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa a Giulio Andreotti, a causa delle informazioni contenute al suo interno. Secondo la madre di Emanuela Setti Carraro, la figlia le avrebbe confidato che il Generale non consegnò ad Andreotti tutte le carte rinvenute, e che nelle stesse fossero indicati segreti estremamente gravi[5].
Il giornalista Mino Pecorelli, amico di Dalla Chiesa, aveva dichiarato che di memoriali ne erano stati rinvenuti diversi e che le rivelazioni contenute all'interno fossero collegate alle responsabilità politiche del sequestro Moro[34]. Pochi giorni dopo aver dichiarato di voler pubblicare integralmente uno degli stessi sulla sua rivista Op[35] venne ucciso.
Secondo la sorella del giornalista, Dalla Chiesa aveva incontrato Pecorelli pochi giorni prima che venisse ucciso ed il Generale aveva confidato al giornalista alcune importanti informazioni sul caso Moro[36], consegnandogli documenti riguardanti il ruolo di Giulio Andreotti[37][38]. Secondo il collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, Pecorelli e Dalla Chiesa erano a conoscenza di segreti sul sequestro Moro che infastidivano Andreotti; Buscetta inoltre affermò che il boss Gaetano Badalamenti gli disse:
« [Dalla Chiesa] Lo hanno mandato a Palermo per sbarazzarsi di lui. Non aveva fatto ancora niente in Sicilia che potesse giustificare questo grande odio contro di lui[39] » |
Nel 2000 un consulente della Commissione Parlamentare d'inchiesta affermò che, a suo giudizio, i carabinieri avessero falsificato la realtà, omettendo di descrivere le modalità di ritrovamento del borsello, impiegando troppo tempo ad effettuare il blitz (il borsello fu ritrovato a fine agosto, il blitz venne fatto ad ottobre) e ipotizzando che la perdita del borsello da parte di Walter Azzolini non fosse stata casuale, ma un'azione che potrebbe far nascere sospetti sul suo reale ruolo in seno alle Brigate Rosse. Tali affermazioni hanno suscitato la reazione di Nando dalla Chiesa e dei magistrati Pomarici e Spataro, in difesa dei carabinieri che condussero l'indagine, la cui unica lacuna fu di non aver individuato il doppio fondo nel muro[33].
Inoltre, nel suo diario personale, Dalla Chiesa racconta che ebbe un colloquio con Andreotti il 5 aprile 1982, poco tempo prima di insediarsi come Prefetto di Palermo, nel quale gli disse chiaramente che non avrebbe avuto riguardi per quella parte di elettorato mafioso, alla quale attingevano gli uomini della sua corrente in Sicilia; e successivamente aveva definito la corrente andreottiana a Palermo «la famiglia politica più inquinata del luogo», aggiungendo che gli andreottiani erano fortemente compromessi con Cosa Nostra[40]. Andreotti però negò questa circostanza, sostenendo che Dalla Chiesa sicuramente lo confondeva con altre persone che incontrava in quel periodo[41].
Onorificenze[42][modifica | modifica sorgente]
Grande ufficiale dell'Ordine militare d'Italia | |
«Ufficiale Generale dell’Arma dei Carabinieri, già postosi in particolare evidenza per le molteplici benemerenze acquisite nella lotta per la resistenza e contro la delinquenza organizzata, in un arco di nove anni ed in più incarichi – ad alcuno dei quali chiamato direttamente dalla fiducia del Governo – ideava, organizzava e conduceva, con eccezionale capacità, straordinario ardimento, altissimo valore e supremo sprezzo del pericolo una serie ininterrotta di operazioni contro la criminalità eversiva. Le sue eccelse doti di comandante, la genialità delle concezioni operative, l’infaticabile tenacia, in momenti particolarmente travagliati della vita del Paese e di grave pericolo per le istituzioni, concorrevano in modo rilevante alla disarticolazione delle più agguerrite ed efferate organizzazioni terroristiche, meritandogli l’unanime riconoscimento della collettività nazionale. Cadeva a Palermo, proditoriamente ucciso, immolando la sua esemplare vita di Ufficiale e di fedele servitore dello Stato. Territorio Nazionale 1º ottobre 1973 – 5 maggio 1982.[43]» — 17 maggio 1983[44] |
Medaglia d'oro al valor civile | |
«Già strenuo combattente, quale altissimo Ufficiale dell'Arma dei Carabinieri, della criminalità organizzata, assumeva anche l'incarico, come Prefetto della Repubblica, di respingere la sfida lanciata allo Stato Democratico dalle organizzazioni mafiose, costituenti una gravissima minaccia per il Paese. Barbaramente trucidato in un vile e proditorio agguato, tesogli con efferata ferocia, sublimava con il proprio sacrificio una vita dedicata, con eccelso senso del dovere, al servizio delle Istituzioni, vittima dell'odio implacabile e della violenza di quanti voleva combattere. Palermo, 3 settembre 1982.» — 13 dicembre 1982[44] |
Grande ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica italiana | |
— 2 giugno 1980[45] |
Medaglia di bronzo al valor civile | |
«Comandante di Legione territoriale accorreva, in occasione di un disastroso movimento sismico, nei centri maggiormente colpiti, prodigandosi per avviare, dirigere e coordinare le complesse e rischiose operazioni di soccorso alle popolazioni. Malgrado ulteriori scosse telluriche, persisteva nella propria infaticabile opera, offrendo nobile esempio di elevate virtù civiche e di attaccamento al dovere.» — Sicilia Occidentale, gennaio 1968. |
Medaglia d'argento al valor militare | |
«Durante nove mesi di lotta contro il banditismo in Sicilia cui partecipava volontario, dirigeva complesse indagini e capeggiava rischiosi servizi, riuscendo dopo lunga, intensa ed estenuante azione a scompaginare ed a debellare numerosi agguerriti nuclei di malfattori responsabili di gravissimi delitti. Successivamente, scovati i rifugi dei più pericolosi, col concorso di pochi dipendenti, riusciva con azione rischiosa e decisa a catturarne alcuni e ad ucciderne altri in violento conflitto a fuoco nel corso del quale offriva costante esempio di coraggio.» — Sicilia Occidentale, settembre 1949 - giugno 1950. |
Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia | |
Croce al merito di guerra (2 volte) | |
Medaglia di benemerenza per i Volontari della Guerra 1940–43 | |
Distintivo di Volontario della Libertà | |
Medaglia commemorativa della guerra 1940 – 43 | |
Medaglia commemorativa della guerra 1943 – 45 | |
Medaglia Mauriziana al merito di 10 lustri di carriera militare | |
Medaglia al merito di lungo comando nell'esercito (20 anni) | |
Croce d'oro per anzianità di servizio (40 anni) | |
Cavaliere del Sovrano Militare Ordine di Malta | |
Croce con spade dell'Ordine al Merito Melitense (classe militare) | |
Cavaliere dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme | |
Distintivo di Osservatore d'Aeroplano | |
Avanzamento per merito di guerra | |
Inserito da Cristina Genna Blogger
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