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20.08.2014 10:24I dieci misteri irrisolti delle Grotte artificiali di Longyou, Cina
Le Grotte Longyou sono una sistema di grandi caverne artificiali situate nei pressi del villaggio di Shiyan Beicun, nella prefettura di Quzhou, in Cina. Scoperte nel 1992, finora sono state individuate 36 grotte. Considerando la loro origine artificiale, si tratta di grotte molto grandi, con una superficie coperta che supera i 30 km². Chi le ha costruite e soprattutto perché? Ecco i dieci misteri irrisolti delle grotte di Longyou.
Situate nei pressi del villaggio di Shiyan Beicun nella provincia di Zhejiang, le Grotte di Longyou sono un magnifico e raro mondo sotterraneo, considerate in Cina come la ‘nona meraviglia del mondo’.
Queste affascinanti grotte artificiali, che si pensa risalgano ad almeno 2 mila anni fa, rappresentano una delle opere architettoniche sotterranee più grandi dei tempi antichi.
Scienziati e archeologi di tutto il mondo, però, non sono ancora riusciti a svelare i suoi segreti, lasciando senza risposta le domande su chi le abbia costruite e soprattutto perchè.
Il sistema di grotte è stato scoperto nel 1992 da un abitante del villaggio locale. Da allora sono state esplorate circa 36 cavità artificiali, per una superficie totale che super a 30 mila m². Le grotte sono state scavate nella siltite solida e ognuna di esse si inabissa ad una profondità di circa 30 m.
Il paesaggio è costellato da ponti, grondaie, piscine e pilastri uniformemente distribuiti in tutta la struttura con lo scopo di sostenere le volte delle grotte. Le pareti e le colonne di sostegno sono state scavate con grande precisione, ricoperte di linee parallele decorative realizzate a scalpello.
Delle 36 grotte, attualmente sono una è aperta al pubblico, scelta perchè al suo interno vi sono sculture in pietra che raffigurano cavalli, pesci e
uccelli.
Le Grotte Longyou sono un autentico enigma per gli studiosi. Su proposta del blog Ancient Origins, proponiamo i dieci misteri ancora insoluti che le riguardano.
Cifrario Beale
Il cifrario Beale viene considerato come uno dei grandi enigmi crittografici ancora non risolti. Si compone di una serie di tre messaggi lasciati nel 1822 da Thomas J. Beale ad un amico, con l'impegno di leggerli solo se non fosse tornato, che condurrebbero ad un favoloso tesoro sepolto nella Contea di Bedford, in Virginia (Stati Uniti d'America). Il primo messaggio indicherebbe il luogo del tesoro, il secondo la descrizione ed il terzo i nomi dei compagni di Beale.
I messaggi sono composti da una sequenza di numeri e si è compreso che la chiave di lettura è posta in tre libri. I numeri in questione indicano pagine e posizione delle lettere da trovare, una volta unite tutte le singole lettere si ha il messaggio completo. Finora è stato interpretato solo il secondo, a partire dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Gli altri due sono tuttora irrisolti.
STORIA
Nel 1817 Thomas Jefferson Beale ed il suo gruppo di 30 uomini seguivano una ricca mandria di bufali a circa 400 chilometri a nord di Santa Fe. Si accamparono per la notte in una zona relativamente protetta, forse un fossato, quando la luce del fuoco fece brillare qualcosa nelle rocce circostanti: oro in abbondanza. Per oltre un anno e mezzo Beale e gli altri scavarono oro e argento in gran quantità.
Nel novembre 1819, fecero ritorno in Virginia e seppellirono mezza tonnellata d'oro e quasi due d'argento in una fossa poco profonda. Due anni dopo Beale vi aggiunse un'altra tonnellata d'oro, mezza tonnellata d'argento e gioielli. Poi ripartì e non tornò mai più.
Lasciò però una cassetta ad un oste verso il quale riponeva fiducia per la sua onestà: Robert Morris. Le istruzioni allegate vincolavano l'oste a non aprire la cassetta consentendogli di farlo solo se per dieci anni Beale non avesse fatto ritorno. Promise anche di mandargli via posta nel frattempo la chiave per risolvere il cifrario ma questa non arrivò mai, facendo ipotizzare che forse Beale morì prima dell'invio. Quando Morris molti anni dopo aprì la cassetta, trovò dei fogli coperti di numeri e due lettere, indirizzate a lui. Vi si raccontava la storia della scoperta dell'oro e lo esortava a dividere il tesoro in 31 parti uguali: una per se stesso e le altre per i suoi compagni o il parente più stretto ancora in vita. I fogli con i numeri spiegavano i nomi dei compagni e dove fosse nascosto e composto il tesoro ed erano stati cifrati dato che si presupponeva che Beale stesso avrebbe recuperato il tesoro o avrebbe fatto in modo da fargli pervenire la chiave.
Dopo aver tentato senza successo di decifrare il tutto Morris decine di anni dopo cedette tutto a un amico il quale riuscì a decrittare il secondo messaggio: la chiave del documento numero due era nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti. Beale aveva numerato ogni parola da 1 a 1322 e aveva usato quel numero come equivalente di cifra per la prima lettera della parola. Costui alla fine rese le lettere e i testi cifrati pubblici, apparentemente via Jas (James?) B Ward, in un libello del 1885 intitolato The Beale Papers.
Ward quindi non sarebbe l'amico che decifrò il secondo messaggio, la figura stessa di quest'ultimo è oscura e non è rintracciabile nei registri locali, tranne per il fatto che qualcuno con quel nome era il proprietario della casa nella quale Sarah Morris, identificata come la moglie di Robert Morris (l'oste), morì all'età di 77 anni,[1] quindi può darsi che egli dopo tutto fosse l'amico responsabile della decifrazione. Non ci sono spiegazioni sulla circostanza che portò alla soluzione del secondo testo, facendo pensare che forse il solutore disponesse di informazioni aggiuntive ora andate perse.
Per risolvere gli altri due crittogrammi si è provato in tutte le maniere: testi giuridici, la Bibbia, libri in lingua straniera, Shakespeare ma tutto questo non portò a nulla. Nel 1964 il dottor Carl Hammer di Washington programmò elaborati testi statistici per visualizzare le caratteristiche e le singolarità del crittogramma. Analizzò la distribuzione dei numeri, le somme e schemi matematici. Tutto ciò confermò solo che il documento numero uno è stato cifrato con lo stesso sistema del secondo. Ma Hammer non ha risolto il crittogramma.
Stando al preambolo, se qualcuno un giorno riuscirà a risolverli diventerà molto ricco, sempre che il tesoro sia ancora al suo posto.
Il testo
Prima parte
Il luogo
Seconda parte[
La descrizione
Decrittazione seconda parte[
(EN) |
(IT) |
(Estratto 2 decodificato) |
Terza parte[
I compagni
Verità o bufala?
È in atto un considerevole dibattito se i due testi cifrati rimanenti siano veri o si tratti di bufale.
Nel 1934, il Dr. Clarence Williams, un ricercatore della biblioteca del Congresso dichiarò: "Per me, la storia dell'opuscolo ha tutti gli elementi del falso[...] Non c'è nessuna prova tranne la parola dell'autore del libello che attesti il fatto che abbia mai avuto queste carte".
Inoltre, la storia presenta diverse incongruenze e si basa quasi interamente su prove di circostanza e dicerie. Molti crittografi hanno anche dichiarato che i due crittogrammi restanti hanno caratteristiche statistiche che suggeriscono il fatto che non si tratti realmente della crittografia di un testo inglese.[ Alcuni hanno anche dibattuto sul perché Beale avrebbe dovuto prendersi la briga di scrivere tre differenti testi cifrati (con almeno due chiavi, se non cifrari) per quello che essenzialmente sarebbe un messaggio unico. È spesso stato detto, in diverse maniere, che l'intera storia appare troppo implausibile per essere vera.lteriori dubbi vengono dal fatto che alcuni hanno osservato che l'uso anacronistico di alcuni termini inglesi (per esempio le parole "stampede" e "improvise", non riscontrate prima degli anni 40 del XIX secolo) nelle lettere indicano che le stesse non siano state composte prima di quel periodo e non nei primi anni 20 come affermato dalla storia. Un altro punto interessante, a detta di alcuni, è che proprio il secondo messaggio, quello contenente le informazioni sulla consistenza del tesoro, è stato l'unico a essere decifrato. Secondo questi, questa coincidenza potrebbe essere un gesto deliberato atto a incoraggiare la decifrazione degli altri due testi, solo per scoprire alla fine che si tratta di una burla.
Un'ultima perplessità, di natura tecnica, la riserva il terzo cifrario: piuttosto breve, specialmente considerando che dovrebbe contenere le informazioni dei parenti di trenta individui. Alcuni hanno suggerito che possa essere un cifrario valido, ma contenente in realtà nessuna informazione rilevante, dimostrandosi semplicemente, una volta decrittato, un messaggio burla di qualche tipo.
Nonostante tutto, ci sono stati molti tentativi di risolvere i cifrari rimanenti; la maggior parte delle volte sono stati usati altri testi storici come chiave (per esempio, la Magna Carta, vari libri della Bibbia, la Costituzione degli Stati Uniti e la Virginia Royal Charter). Risolvere il cifrario può dipendere dal caso (come, per esempio, sbagliando l'interpretazione di una chiave, sempre che gli ultimi due messaggi siano basati sul cifrario di un libro) quindi anche i migliori criptoanalisti che hanno provato a risolverlo non sono approdati a nulla. C'è anche da considerare il fatto che Beale potrebbe avere usato un documento scritto da sé stesso per ciascuna o entrambe le chiavi rendendo quindi inutile ogni tentativo.
Esistette Thomas J. Beale?
Una ricerca nei registri dell'U.S. Census del 1810 ha rivelato che a quei tempi esistevano due persone con quel nome, in Connecticut e nel New Hampshire. Comunque, a quei tempi, mancavano completamente dagli elenchi dell'U.S. Census i dati di sette stati, un territorio, il Distretto di Columbia e diciotto delle contee della Virginia.[5] L'U.S. Census del 1820 aveva due persone chiamate Thomas Beale, in Louisiana e Tennessee, e un Thomas K. Beale in Virginia. Ma continuavano a mancare completamente i dati degli abitanti di tre stati e un territorio.
C'è anche da dire, inoltre, che prima del 1850 l'U.S. Census registrava solo i nomi dei capifamiglia e gli altri elementi venivano solo conteggiati. In pratica, qualora fosse esistito, Beale avrebbe potuto vivere in casa di qualcuno e quindi non risultare negli elenchi.[
Kryptos
Kryptos presso la Central Intelligence Agency a Langley, Virginia
Kryptos (dal greco κρυπτός -ή -όν "kryptòs -è -òn", significato: nascosto) èè una scultura dell'artista statunitense Jim Sanborn collocata nel quartier generale della CIA (Central Intelligence Agency) a Langley in Virginia.
Dalla sua posa avvenuta il 3 novembre 1990 vi sono state molte speculazioni circa il significato del messaggio crittografato contenuto nella scultura; è spunto di riflessione, di scambio e di distrazione per gli impiegati della CIA ed altri crittoanalisti impegnati a decifrarne il messaggio.
Descrizione[La parte principale dell'opera è fatta di granito rosso, ardesia rossa e verde, quarzo bianco, legno pietrificato, magnetite e rame; si trova nel lato nord-ovest del cortile della nuova sede della CIA, all'esterno della caffetteria.
Il nome "Kryptos" deriva dalla parola greca "nascosto"; il tema della scultura è "intelligence gathering" (una traduzione possibile è "Riunire l'intelligenza"). La forma principale è una "S" disposta verticalmente, che evoca un tabulato che emerge da una stampante oppure lo schermo di un computer che scorre un testo. Il testo è cifrato e consiste nei 26 caratteri standard dell'alfabeto latino-americano ed il punto interrogativo. Il testo contiene quattro messaggi distinti, ognuno codificato con un cifrario differente.
Oltre alla scultura principale, Sanborn ha disposto altre sculture minori sparse per il complesso della CIA, quali delle lastre di granito con un interstizio di rame dove sono incisi dei messaggi in codice morse; una di queste comprende anche una bussola. Altri elementi della medesima opera consistono in un giardino con un laghetto ed una serie di altre lastre prive di incisioni.
Il costo della scultura è stato di 250.000 dollariHYPERLINK \l "cite_note-1"[1]Msaggi cifrati
Il testo cifrato sulla metà della scultura principale contiene 869 caratteri, tuttavia Sanborn, durante l'aprile del 2006, ha informato che una lettera era mancante; ciò porterebbe il numero delle lettere nella porzione principale a 870. Nella seconda metà della scultura è presente invece un cifrario di Vigenère di 869 caratteri contando anche gli spazi. Sanborn ha lavorato al sistema crittografico della scultura con un impiegato della CIA prossimo alla pensione, Ed Scheidt, direttore del CIA Cryptographic Center; Sanborn rivelò che la scultura contiene un enigma all'interno degli enigmi che sarà risolvibile unicamente dopo che i quattro passaggi cifrati saranno decodificati. Disse inoltre che l'intera soluzione è stata data al direttore della CIA William H. Webster al momento della posa della scultura; in un'intervista concessa a wired.com nel gennaio del 2005, Sanborn rettificò quanto precedentemente dichiarato, dicendo che Webster in realtà non ha l'intera soluzione. Sanborn ha comunque confermato che la seconda parte del messaggio cifrato contiene: "Who knows the exact location? Only WW" ("Chi conosce l'esatta posizione? Solo WW") dove "WW" si riferisce proprio a William Webster.
Trascrizione
EMUFPHZLRFAXYUSDJKZLDKRNSHGNFIVJ YQTQUXQBQVYUVLLTREVJYQTMKYRDMFD VFPJUDEEHZWETZYVGWHKKQETGFQJNCE GGWHKK?DQMCPFQZDQMMIAGPFXHQRLG TIMVMZJANQLVKQEDAGDVFRPJUNGEUNA QZGZLECGYUXUEENJTBJLBQCRTBJDFHRR YIZETKZEMVDUFKSJHKFWHKUWQLSZFTI HHDDDUVH?DWKBFUFPWNTDFIYCUQZERE EVLDKFEZMOQQJLTTUGSYQPFEUNLAVIDX FLGGTEZ?FKZBSFDQVGOGIPUFXHHDRKF FHQNTGPUAECNUVPDJMQCLQUMUNEDFQ ELZZVRRGKFFVOEEXBDMVPNFQXEZLGRE DNQFMPNZGLFLPMRJQYALMGNUVPDXVKP DQUMEBEDMHDAFMJGZNUPLGEWJLLAETG |
ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCD AKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYP BRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPT CYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTO DPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOS ETOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSA FOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSAB GSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABC HABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCD IBCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDE JCDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEF KDEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFG LEFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGH MFGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHI |
ENDYAHROHNLSRHEOCPTEOIBIDYSHNAIA CHTNREYULDSLLSLLNOHSNOSMRWXMNE TPRNGATIHNRARPESLNNELEBLPIIACAE WMTWNDITEENRAHCTENEUDRETNHAEOE TFOLSEDTIWENHAEIOYTEYQHEENCTAYCR EIFTBRSPAMHHEWENATAMATEGYEERLB TEEFOASFIOTUETUAEOTOARMAEERTNRTI BSEDDNIAAHTTMSTEWPIEROAGRIEWFEB AECTDDHILCEIHSITEGOEAOSDDRYDLORIT RKLMLEHAGTDHARDPNEOHMGFMFEUHE ECDMRIPFEIMEHNLSSTTRTVDOHW?OBKR UOXOGHULBSOLIFBBWFLRVQQPRNGKSSO TWTQSJQSSEKZZWATJKLUDIAWINFBNYP VTTMZFPKWGDKZXTJCDIGKUHUAUEKCAR |
NGHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJL OHIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJL PIJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLM QJLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMN RLMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQ SMNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQU TNQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUV UQUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVW VUVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWX WVWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZ XWXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZK YXZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKR ZZKRYPTOSABCDEFGHIJLMNQUVWXZKRY ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZABCD |
Risolutori
La prima persona che pubblicamente ha annunciato di aver risolto le prime tre sezioni – nel 1999 – è stato James Gillogly, un esperto di informatica del sud California, che ha decifrato 760 caratteri (772 meno 3 punti di domanda e "XLAYERTWO"). La porzione che non riesce a risolvere (circa 97 / 98 caratteri) è la stessa parte che ha bloccato i crittoanalisti del governo. Dopo l'annuncio di Gillogly la CIA ha informato che il suo analista David Stein è giunto alla medesima soluzione utilizzando unicamente carta e penna ma che l'informazione è stata tenuta confidenziale all'interno dell'agenzia e non ne è stato dato quindi un annuncio pubblico. Anche la National Security Agency (NSA) ha sostenuto di essere arrivata ad una soluzione tramite un team diretto da Ken Miller, con Dennis McDaniels ed altre due persone il cui nome non è stato reso noto; tramite un computer l'NSA ha decodificato le parti da 1 a 3 nel tardo 1992 ma anche loro sono stati bloccati dalla quarta parte.
Il Dipartimento di Matematica dell'Università della California, San Diego (UCSD) ha proposto questa soluzione
Prima sezione (inizio del pannello 1):
EMUFPHZLRFAXYUSDJKZLDKRNSHGNFIVJ YQTQUXQBQVYUVLLTREVJYQTMKYRDMFD ... |
« BETWEEN SUBTLE SHADING AND THE ABSENCE OF LIGHT LIES THE NUANCE OF IQLUSION. » |
« Tra sottile ombreggiatura e l'assenza di luce si trova la sfumatura di Iqlusion. » |
Seconda sezione (fine del pannello 1):
... VFPJUDEEHZWETZYVGWHKKQETGFQJNCE GGWHKK?DQMCPFQZDQMMIAGPFXHQRLG TIMVMZJANQLVKQEDAGDVFRPJUNGEUNA QZGZLECGYUXUEENJTBJLBQCRTBJDFHRR YIZETKZEMVDUFKSJHKFWHKUWQLSZFTI HHDDDUVH?DWKBFUFPWNTDFIYCUQZERE EVLDKFEZMOQQJLTTUGSYQPFEUNLAVIDX FLGGTEZ?FKZBSFDQVGOGIPUFXHHDRKF FHQNTGPUAECNUVPDJMQCLQUMUNEDFQ ELZZVRRGKFFVOEEXBDMVPNFQXEZLGRE DNQFMPNZGLFLPMRJQYALMGNUVPDXVKP DQUMEBEDMHDAFMJGZNUPLGEWJLLAETG |
« IT WAS TOTALLY INVISIBLE HOWS THAT POSSIBLE ? THEY USED THE EARTHS MAGNETIC FIELD X THE INFORMATION WAS GATHERED AND TRANSMITTED UNDERGRUUND TO AN UNKNOWN LOCATION X DOES LANGLEY KNOW ABOUT THIS ? THEY SHOULD ITS BURIED OUT THERE SOMEWHERE X WHO KNOWS THE EXACT LOCATION ? ONLY WW THIS WAS HIS LAST MESSAGE X THIRTY EIGHT DEGREES FIFTY SEVEN MINUTES SIX POINT FIVE SECONDS NORTH SEVENTY SEVEN DEGREES EIGHT MINUTES FORTY FOUR SECONDS WEST X LAYER TWO » |
« È stato totalmente invisibile, come è possibile? Hanno usato il campo magnetico terrestre. Le informazioni sono state raccolte e inviato discretamente verso una destinazione sconosciuta. Langley sa di questo? Essi lo dovrebbero sapere, è sepolto là fuori da qualche parte. Chi conosce la posizione esatta? Solo WW. Era il suo ultimo messaggio. 38 ° 57' 6,5 Nord. 77 ° 8' 44 Ovest[3]. » |
Sezione 3 (inizio del pannello 2)[
ENDYAHROHNLSRHEOCPTEOIBIDYSHNAIA CHTNREYULDSLLSLLNOHSNOSMRWXMNE TPRNGATIHNRARPESLNNELEBLPIIACAE WMTWNDITEENRAHCTENEUDRETNHAEOE TFOLSEDTIWENHAEIOYTEYQHEENCTAYCR EIFTBRSPAMHHEWENATAMATEGYEERLB TEEFOASFIOTUETUAEOTOARMAEERTNRTI BSEDDNIAAHTTMSTEWPIEROAGRIEWFEB AECTDDHILCEIHSITEGOEAOSDDRYDLORIT RKLMLEHAGTDHARDPNEOHMGFMFEUHE ECDMRIPFEIMEHNLSSTTRTVDOHW?... |
« SLOWLY DESPARATLY SLOWLY THE REMAINS OF PASSAGE DEBRIS THAT ENCUMBERED THE LOWER PART OF THE DOORWAY WAS REMOVED WITH TREMBLING HANDS I MADE A TINY BREACH IN THE UPPER LEFT HAND CORNER AND THEN WIDENING THE HOLE A LITTLE I INSERTED THE CANDLE AND PEERED IN THE HOT AIR ESCAPING FROM THE CHAMBER CAUSED THE FLAME TO FLICKER BUT PRESENTLY DETAILS OF THE ROOM WITHIN EMERGED FROM THE MIST X CAN YOU SEE ANYTHING Q (?) » |
« Lentamente, disperatamente lentamente, i detriti che ingombra la parte inferiore del passaggio sono stati rimosso. Con le mani tremanti ho fatto una piccola apertura in alto a sinistra che a poco a poco è stata estesa. Mi è stato poi portata una candela e ho osservato a lungo all'interno. L'aria calda che fuoriesce dalla camera faceva vacillare la fiamma. Ma ora, i dettagli della stanza mi apparve in mezzo alla nebbia. Vedete qualcosa? » |
Forse è una parafrasi in riferimento a una citazione attribuita a Howard Carter sulla scoperta della tomba di Tutankhamon nel 1923.
Solstizio d'estate: il culto di Stonehenge e il mistero dei megaliti
ROMA - Il 21 giugno oltre a segnare l'inzio della tanto agognata stagione estiva, è quello che comunemente viene indicato come il giorno più lungo dell'anno: il sole raggiungerà la sua massima distanza dall'equatore, regalandoci così più ore di luce.
Al solstizio d'estate è anche associato il sito neolitico più famoso del mondo: migliaia di turisti e curiosi ogni anno in questo giorno si recano a Stonehenge per ammirare il sole che sorge sulla pietra centrale, la Heel Stone (pietra del tallone).
Il complesso monumentale è il fulcro dei misteri legati al solstizio e all'equinozio: le pietre che lo compongono sono infatti allineate in corrispondenza dei punti in cui il sole sorge in quei particolari giorni, motivo per cui è stato ipotizzato che il sito fosse un antico osservatorio astronomico.
Tuttavia, poco si sa riguardo la costruzione di Stonehenge: la tradizione più popolare la vede legata al culto dei druidi, che istituirono il sito come luogo di sacrifici.
Ogni megalite che compone il complesso, ha un nome e una storia: la più curiosa è quella legata alla cosidetta Pietra del Tallone (Heel Stone), anticamente conosciuta con i nomi di Pietra del Sole (Sun-Stone) e Tallone del Frate (Friar’s Heel).
Un racconto popolare spiega così l'origine del nome:
"Il diavolo comprò le pietre da una donna in Irlanda, le avvolse e le portò sulla piana di Salisbury. Una delle pietre cadde nel fiume Avon, le altre vennero portate sulla piana. Il diavolo allora gridò, 'Nessuno scoprirà mai come queste pietre sono arrivate fin qui"' Un frate rispose, 'Questo è ciò che credi!', allora il diavolo lanciò una delle pietre contro il frate e lo colpì su un tallone. La pietra si incastrò nel terreno, ed è ancora lì."
Ma chi posizionò quelle pietre così grandi?
Secondo Goffredo di Monmouth, fu Mago Merlino a dare ordine ai giganti di trasportare le pietre in Inghilterra dall'Africa.
Per adesso molte sono le teorie dietro la natura dei megaliti.
Tra mito e realtà, quello di Stonehenge rappresenta uno dei misteri più affascinanti della storia dell'uomo.
Pascualita
Pascualita, la sposa cadavere imbalsamata di Chihuahua in Messico 2 L'intrigante manichino del negozio La Popular a Chihuahua in Messico è al centro di un macabro mistero che dura dal 1930 E così accade che tua figlia muoia nel giorno del suo matrimonio e allora tu prima ne fai imbalsamare il cadavere e poi lo usi come manichino da esposizione nel tuo negozio di abiti da sposa in pieno centro città. Questa, in pochissime righe, sembrerebbe essere la storia di Pascualita una vera e propria attrazione di massa che si trova a Chihuahua in Messico. Da brividi, vero? Peccato probabilmente non ci sia nulla di vero in quanto appena scritto. O, meglio, peccato che la verità a riguardo sia ormai così lontana nel tempo - storpiata e manipolata dalle dicerie, le leggende e l'enorme bisogno di una gran fetta del popolino di credere a vicende e storielle macabre e sovrannaturali - da non essere più distinguibile dal mito. Ma cominciamo dall'inizio... Pascualita: le nozze e la vedova nera Per Pascuala Esparza, la proprietaria di un noto negozio di abiti da sposa di Chihuahua (il capoluogo dello stato omonimo che compone insieme ad altri 30 la Repubblica federale del Messico), era il giorno più bello mai vissuto: sua figlia Pascualita (letteralmente piccola Pascuala, ovvero la figlia di Pascuala) stava infatti per sposarsi. La bella giovane, nel suo candido abito da sposa confezionato nel laboratorio del negozio materno, sarebbe di lì a poco andata alla cerimonia del suo matrimonio. Ma il destino triste e spietato le giocò un bruttissimo scherzo: poco prima di recarsi in chiesa la ragazza venne infatti morsicata da una vedova nera e in seguito morì a causa del terribile veleno di questo ragno. Le nozze non furono mai celebrate, Pascualita restò per sempre celibe e quel magnifico abito da sposa non arrivò mai all'altare. Come superare questa incredibile ed triste tragedia? Pascuala, da imprenditrice tosta e capace qual era, non si perse d'animo. In segreto sottrasse alle autorità il cadavere dell'adorata e stupenda figlia, lo fece inbalsamare, e successivamente lo portò al suo negozio, dove dal 25 marzo 1930 viene utilizzato come manichino da esposizione. Per la donna, provata dal dolore, è stato un modo fantastico di avere l'amata figlia sempre vicina a sè, ancora bellissima e vestita nel modo in cui sarebbe stato più appropriato ricordarla, da sposa. Pascualita: le reazioni dei passanti La comparsa di questo nuovo "manichino" nella principale vetrina del negozio non passò però inosservato a causa del suo estremo realismo. Lo sguardo lieve, la pelle perfetta e dettagliata, i capelli di seta più veri del vero... La gente cominciò a farsi domande. La gente cominciò a fare congetture. La gente cominciò a malignare. Giorno dopo giorno dopo giorno. Ma Pascuala Esparza non ha da poco perso la figlia? Ma questo manichino così realistico non le assomiglia come una goccia d'acqua? E se... Nel giro di poco tempo la situazione degenerò. In molti si convinsero che quel "manichino" era troppo vero per essere semplicemente un manichino, si doveva per forza trattare del cadavere della figlia di Pascuala. Molti protestarono pubblicamente per la cosa, qualcuno addirittura cominciò a telefonare alla sarta e a minacciarla. Quando quest'ultima rilasciò una dichiarazione ufficiale sostenendo che quello che faceva bella mostra di sè nella vetrina del suo negozio era solo un semplice manichino (per quanto bello e sofisticato), era ormai troppo tardi: il popolo aveva le sue convinzioni e tali sarebbero rimaste. Del nome, quello vero, della figlia di Pascuala si perse memoria, rimase solamente la leggenda di Pascualita. Pascualita: nuovi proprietari, sempre in mostra Gli anni passarono e la proprietà del negozio - La Popular - cambiò di mano più volte. Ma Pascualita è rimasta sempre al suo posto, nella vetrina principale. Col passare dei decenni è divenuta una vera e propria celebrità alla quale fanno visita un numero elevatissimo di persone. I "turisti" arrivano anche dagli Stati Uniti e dall'Europa, non solo dal Messico. In molti casi sono semplici "curiosi" venuti per osservarla da vicino con i propri occhi e cercare di capire se si tratti di un semplice manichino o di un vero corpo imbalsamato, in altri dei veri e propri "fedeli" accorsi a testimoniarle la propria devozione e donarle candele votive. Qualcuno è arrivato addirittura ad attribuirle dei miracoli. Mario Gonzales, l'attuale proprietario di La Popular, ha raccontato di quella volta in cui una donna, nel corso di un litigio col proprio uomo svoltosi di fronte al negozio, è stata colpita da un proiettile sparato da quest'ultimo: una volta a terra ha invocato l'aiuto di Pascualita... ed è sopravvissuta! Pascualita: i misteri si moltiplicano Attorno alla figura di questo "manichino" hanno cominciato a circolare tante storie profumate di sovrannaturale. E in un certo senso sarebbe strano se non ce ne fossero. C'è chi dice che certi giorni Pascualita cambi posizione da sola. Chi si sente costantemente addosso il suo sguardo. Chi è pronto a raccontare di tanti "strani incidenti e fenomeni" che sono accorsi negli anni all'interno del negozio. E chi, come certe commesse del negozio, si trovano enormemente a disagio quando subito prima delle chiusura serale restano da sole con lei. Qualcuna confessa di avere le mani bagnate di sudore ogni volta che deve cambiarle d'abito (operazione che avviene due volte a settimana dietro un'apposita tenda, al riparo di sguardi indiscreti). Altre che assolutamente non vogliono averci nulla a che fare. Ooooooooh... paura, eh!? Pascualita: tutta la verità Ma allora, Pascualita è o non è un cadavere imbalsamato? Chi pensa di sì porta a sostegno della propria tesi l'incredibile realismo del "manichino", così pieno di dettagli: dalle unghie delle mani alle (poche) vene varicose sulle gambe. Chi pensa di no cita il parere di tanti tassidermisti che sostengono che conservare in quello stato perfetto per così tanti anni un cadavere è impossibile. Noi di LaTelaNera.com ricordiamo ai primi che in ambito film horror lavorano tanti "artigiani" degli effetti speciali in grado di creare teste, corpi e mostri tanto finti quanto in apparenza veri, ai secondi che le opere cadaveriche di Gunther von Hagens sono praticamente "perenni" grazie al suo processo di plastinazione. E quindi, come la mettiamo? Di una cosa sola possiamo essere certi: che Mario Gonzales continuerà a fare affari d'oro per tanti anni, fino a quando si continuerà a parlare e a scrivere (sul web e non) della sposa cadavere imbalsamata del suo negozio La Popular a Chihuahua in Messico...
IL PANTHEON TRA STORIA E LEGGENDA
Il Pantheon innalzato nel 27 a.c. da Agrippa per volere dell’imperatore Augusto è un tempio solare, i visitatori sono investiti dal calore e dalla luce dell’astro, che penetra attraverso il grande occhio della cupola. A mezzogiorno del 21 giugno, solstizio d’estate, si può assistere ad un fenomeno astrologico-calendariale: il raggio di sole che attraversa il grande occhio della cupola, cade al centro del portale di accesso.Il tempio esprime un simbolismo cosmico: un senso di equilibrio e di stabilità, principi guida dei costruttori antichi, è dato dall’armonia delle line e dal calcolo perfetto delle geometrie delle masse. La funzione di illuminazione della cupola è molto importante per il fatto che si tratta dell’unico punto d’ingresso della luce, che è quindi zenitale, collegamento diretto tra dei e vita terrena (diversamente avviene nelle religioni cristiane dove il collegamento tra vita terrena e Dio avviene con l’intermediazione del sacerdote, in questo caso la luce entra dall’abside orientato ad est ed il rosone orientato ad ovest). Non a caso il fascio di luce che gira all’interno da origine a ipotesi numerologiche secondo il quale questo edificio sia un osservatorio astrologico dell’antichità: una macchina lunare, dedicato a tutti gli Dei.
Nell’antichità fu dedicato alle sette divinità planetarie da cui il nome greco di Pantheon, di tutti gli dei (pan="tutto" e theon="dio").Al foro del Pantheon è legata anche una leggenda medioevale, secondo la quale veniva considerato come antica sede della grande pigna di bronzo, che si trova attualmente nel cortile omonimo in Vaticano.Secondo altre leggende si narra che il foro fosse stato aperto da un diavolo in fuga dal tempio.
Il foro della cupola del Pantheon è una porta d’entrata e d’uscita che ricongiunge, chi l’attraversa, agli splendori dell’antica Roma; proiettando l’uomo a quel senso di sacralità, che pervadeva gli uomini di un tempo, li riunisce agli dei loro protettori.
Oggi una porta astrale frutto di una leggenda del XXI secolo, un misto di laicità e misticismo, che conduce verso nuovi mondi, punto d’incontro con civiltà sconosciute - oniricamente nate - visibili attraverso la leggendaria soglia.
IL MISTERO DELLA LANCIA DI LONGINO
NEL CASTELLO SEDE DELLE SS NAZISTE È CELATO IL SEGRETO DELLA RELIQUIA PIÙ PREZIOSA DELLA CRISTIANITÀ
Una dei più interessanti misteri legati al nazionalsocialismo è legato alla cosiddetta Lancia di Longino, alla cui forma si ispirarono Himmler e i suoi consiglieri per il progetto finale del complesso di Wewelsburg.
Nel romanzo IL SETTIMO SEPOLCRO se ne parla e quindi è utile spendere qualche parola al riguardo. La letteratura tradizionale religiosa afferma che la Lancia, chiamata anche Heilige Lanze (Sacra Lancia), Lancia del Destino, Lancia di Longino, Lancia di S. Maurizio e una miriade di altri nomi, fosse l’arma con la quale il centurione romano Gaio Cassio Longino trafisse il costato del Cristo sul palo di tortura. Esistono decine di variazioni sul tema e non avrebbe senso esaminarle tutte anche perché molte di esse sono deviazioni altomedievali che vengono pesantemente influenzate dalla necessità di nobilitare la propria città con una santa reliquia. Ricordando come in molte chiese d’Europa fossero conservate svariate teste o membra dello stesso santo, possiamo farci un’idea dell’attendibilità di tali leggende.
Tuttavia, qualcosa di vero deve esserci perché al museo Hofburg di Vienna è conservata
Il castello di wewelsburg, sede dell'Ordine SS |
una lancia che è passata di mano in mano almeno dall’VIII sec. fino ad oggi, da Carlo Magno fino ad Hitler, che la considerava fonte di potere sacro. Si tratta di una lancia senza asta, formata da una lama con una zona vuota al centro a cui è stato saldamente legato un chiodo. Due piccoli foderi, di argento sotto e oro sopra, inguainano una porzione di essa. Lungo il chiodo ci sono due piccolissime croci di ottone e dietro ad esse, sempre sul gambo del chiodo, vi sono due piccole saldature, come se qualcosa di importante fosse stato ribattuto a forza, come un intarsio, all’interno del chiodo.
La storia di quest’arma merita davvero una piccola indagine, anche perché, come vedremo, in anni recenti è stato individuato all’interno di essa un vero e proprio mistero. E si tratta di un mistero terribilmente intrigante di cui accenno nel romanzo IL SETTIMO SEPOLCRO.
QUATTRO PASSI NELLA LEGGEDA
Tra le tante variazioni sul tema, possiamo identificare un filone principale nella storia della Sacra Lancia che cercheremo di riassumere e che sconfina varie volte nella leggenda. La storia della Heilige Lanze comincia con il supplizio di Gesù. Giovanni, che possiamo senz’altro considerare una fonte storica attendibile, racconta: <<Ma venuti da Gesù, poiché videro che era già morto, non gli ruppero le gambe. 34 E uno dei soldati gli forò il fianco con la lancia, e immediatamente ne uscì sangue e acqua. 35 E colui che [lo] ha visto ne ha reso testimonianza, e la sua testimonianza è vera, e quest’uomo sa di dire cose vere, affinché anche voi crediate>> (Giovanni 20: 33-35)
Matteo 27:49,50 è il racconto parallelo e conferma l’accaduto. Interessante il desiderio di Giovanni di essere creduto, si trattava in questo caso di una necessità di fede ma egli parlava a persone che avevano visto Gesù o che ne avevano sentito parlare da chi lo aveva ascoltato, per cui non era particolarmente difficile che gli si prestasse fiducia. Quindi un soldato gli trafisse effettivamente il costato da cui uscì sangue ed acqua.
La Lancia di Longino |
Entriamo ora nella leggenda: la tradizione afferma che il soldato si chiamava Gaio Cassio Longino, un nome comune in ambiente latino, il quale comandava una centuria. Si dice che egli fosse quasi cieco e che il sangue di Gesù, colato dalla Lancia sui suoi occhi, gli avesse ridonato immediatamente la vista. C’è da chiedersi come facesse un centurione ad esercitare la sua funzione di comando vedendo poco o nulla; si tratta certamente di una storia con diversi punti deboli.
Ad ogni modo in fondo a molte leggende, specialmente quelle che si estendono così a lungo nel tempo, esiste un nocciolo di verità e quindi andiamo avanti; alcune fonti riportano che Longino studiò con gli apostoli e divenne monaco in Cappadocia.
È necessario notare che nel primo secolo non esisteva il monachesimo, perché era un insegnamento estraneo ai precetti di Gesù che invece aveva mandato i suoi nel mondo per predicare la buona notizia e la stragrande maggioranza dei suoi apostoli erano sposati con prole. Inoltre Gesù stesso era tutto fuorché un monaco, poiché prendeva l’iniziativa nell’avvicinare le persone e non aveva una sede fissa essendo in viaggio continuo. Non ci addentriamo su altri particolari riguardanti Longino perché sono pieni di inesattezze del genere e quindi scarsamente affidabili.
Ci interessa però notare che la Lancia secondo la leggenda, fu conservata come reliquia e passò di mano in mano tra i primi cristiani sino a giungere a Maurizio, comandante della legione tebana di stanza in Egitto. Non sarebbe strano trovare la lancia a tale distanza da Gerusalemme perché i primi cristiani avevano una vita piuttosto frenetica, soprattutto i missionari, come Paolo che erano costantemente in viaggio in tutto il bacino del Mediterraneo per rafforzare ed incoraggiare le congregazioni.
Maurizio comandava una legione formata esclusivamente di cristiani, cosa difficile, se non impossibile da credere nella sua interezza poiché dalle testimonianze patristiche sappiamo che nessun cristiano, almeno tra I e II sec. rimaneva nelle fila dell’esercito dopo aver accettato l’insegnamento di Gesù; ciò perché il servizio militare era contrario all’amore per il prossimo e ad una buona parte di insegnamenti del maestro di Nazareth 1.
Ad ogni modo nel III sec. ci si era allontanati parecchio dall’insegnamento iniziale del cristianesimo e qualcuno già serviva nell’esercito romano. Per comando di Massimiano, la legione tebana fu spostata in Gallia, più o meno nella Svizzera di oggi, per piegare la resistenza dei galli pagani. Lì giunto, Maurizio trovò un simbolo cristiano appeso al collo di un gallo ucciso e questo gli causò un grosso problema: avevano sterminato dei fratelli, barbari che avevano accettato da poco il cristianesimo. A questa vista, Maurizio cominciò a pensare di non essere dalla parte giusta della barricata, ma il problema si fece ancora più grosso quando arrivò Massimiano e richiese un sacrificio generale agli dei e a lui stesso come divus incarnato.
La legione intera si oppose a questo atto idolatrico e il generale romano comandò che uno alla volta fossero uccisi tutti quelli che non avrebbero compiuto il sacrificio. Anche qui v’è da chiedersi come mai la legione non avesse incontrato prima questo problema, visto che le celebrazioni in onore del divino imperatore erano uno dei caposaldi religiosi, anche nell’esercito romano. Ad ogni modo, Maurizio incoraggiò i suoi soldati e la sua forza d’animo nell’affrontare la prova per primo rafforzò i compagni che caddero volontariamente.
Sembra davvero poco credibile che Massimiano eliminasse l’unica forza difensiva che lo circondava, comunque, il coraggioso comportamento di Maurizio divenne la base del codice della cavalleria, anzi egli stesso fu considerato il primo cavaliere e come è risaputo la cavalleria è legata a molti aspetti misteriosi relativi ad una ricerca esoterica, dal Graal alla Sacra Lancia.
UNA STORIA COMPLESSA
Ma Maurizio lasciò un’altra traccia nella storia, che ci ricorda come molte tradizioni abbiano una base reale: la città di Saint Moritz, in Svizzera, sorge sul luogo tradizionalmente accettato del martirio e non può essere solo un caso che si chiami come il comandante della legione tebana.
Da allora la tradizione narra che la Heilige Lanze passò di mano in mano fino a giungere all’imperatore Costantino; sua madre Elena era una fervente cristiana con una devozione speciale verso gli oggetti relativi alla vita del Cristo sulla Terra. Durante i suoi viaggi in Terra Santa sembra che ella abbia portato un chiodo e vari frammenti di legno considerati schegge del palo di tortura di Cristo che fece installare nell’armatura del figlio per garantirne l’invincibilità. Alcuni pensano che un chiodo fu inserito e bloccato anche all’interno della Lancia; effettivamente al Museo di Vienna c’è proprio un chiodo ben serrato tra le lame della lancia di Longino.
Da Costantino la reliquia di Longino passò a Teodosio, Alarico, Teodorico, Giustiniano e Carlo Martello. Infine se ne appropriò nel 774 D.C.Carlo Magno, fondatore del Sacro Romano Impero. Nel 961 il vescovo Liutprando da Cremona scrive quella che rimane come la prima certificazione scritta considerata autentica 2 dell’esistenza della Heilige Lanze; Liutprando descrive nei particolari l’oggetto così come appare oggi, descrivendo anche le minuscole croci di ottone e gli inserti misteriosi all’interno del chiodo, di cui parleremo dopo. La sua cronaca sembra attendibile ed’ è accettata anche dagli specialisti curatori del museo di Vienna. Liutprando tuttavia afferma che la Lancia di Carlomagno sia la stessa di Costantino e che fu passata negli anni seguenti agli eredi del re dei Franchi. Vedremo come almeno questa affermazione risulti falsa.
I successori di Carlo Magno, fedeli alla leggenda che chi possiede la Lancia diverrebbe invincibile, ne fecero una reliquia da esporre ai fedeli, riconoscendone il potere spirituale oltre che politico. All’inizio del XIII sec. un documento scritto di pugno dal papa
Il Kunsthistorisches Museum a Vienna. Nella camera del tesoro del complesso museale dell’Hofburg è conservata la Heilige Lanze |
menziona la Lancia ma solo durante il secolo successivo essa fu ufficialmente accettata dalla Chiesa come reliquia. Precedentemente aveva rappresentato per gli imperatori dell’età carolingia la più nobile insegna regale.
Da essi giunse durante il XIV sec. a Carlo IV, che fece delle attuali Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca il suo regno. Carlo era un fanatico collezionista di reliquie e si era convinto che alla fine dei tempi i santi sarebbero scesi sulla Terra nel luogo in cui esse erano conservate: a questo scopo fece costruire un piccolo castello a trentadue chilometri da Praga. Dietro l’altare, in una camera segreta, erano conservate varie reliquie, tra cui la Heilige Lanze, protette da imponenti mura spesse sei metri. È opinione di alcuni che sia stato proprio Carlo IV a realizzare il fodero d’oro; il Kunsthistorisches Museum afferma ufficialmente che fu sempre lui a far incidere l’iscrizione <<Lancia e chiodo del Signore>> sul fodero. Sulla punta della Lancia esisteva comunque già una incisione dedicata a S. Maurizio.
LA HEILIGE LANZE A NORIMBERGA
Dopo la morte di Carlo, la Lancia fu venduta nel 1424 ad una corporazione di facoltosi mercanti di Norimberga che compresero subito l’importanza, a fini prettamente economici, della reliquia: essa fu trasportata con un carretto del pesce per evitare furti durante il trasporto e giunse a Norimberga dove fu presentata al vescovo locale.
Gli storici Volker Schier e Corine Schleif che hanno studiato approfonditamente la storia della Lancia 3 affermano che essa fu conservata, insieme ad altre reliquie, nella chiesa dello Spirito Santo, e chiusa in un pesante scrigno d’argento. 4
Normalmente lo scrigno, simile a un grosso baule, era appeso al soffitto nella Chiesa con un adeguato sistema di funi e veniva tenuto a mezz’aria, con un evidente effetto psicologico sulle persone: sotto di esso vi era una raffigurazione pittorica di angeli intenti a sostenere la Sacra Lancia di forte impatto emozionale. Sotto di esso, sul pavimento, dormivano due giovani del coro, a guardia del tesoro più importante della città.
La Heilige Lanze veniva mostrata al popolo solo una volta l’anno, in occasione della Festa della Sacra Lancia, istituita cento anni prima da Carlo IV, che si teneva due venerdì dopo la Pasqua. Venne costruita ad hoc una stanza adiacente alla chiesa in cui venivano esposte anche altre reliquie: un dente di Giovanni Battista, una scheggia della mangiatoia di Betlemme, un osso di S. Anna. Il momento culminante della festa era naturalmente l’ostensione della lancia di Longino; il vescovo la mostrava da una finestra alle migliaia di pellegrini qui giunti da tutta la Germania, con grande felicità della corporazione di mercanti che aveva portato a Norimberga la reliquia. Molti facevano anche venti chilometri al giorno a piedi pur di giungere in tempo; se avessero guardato la Lancia almeno una volta nella vita, sarebbero stati certamente accolti in Paradiso, più o meno come girare sette volte intorno alla Kaaba della Mecca. Il giro di affari per la città era notevolissimo: la secolarizzazione della religione e i traffici e i guadagni di mercanti e cambiavalute legati a oggetti sacri, furono anch’essi tra le scintille che scatenarono l’ira dei riformisti poco più di un secolo dopo.
La Heilige Lanze causò una serie di curiosi effetti sul comportamento di pellegrini e
Il piano costruttivo del castello di Wewelsburg a forma di Lancia di Longino |
nobili: moltissimi si premuravano di portare con sé specchi che tiravano fuori durante l’ostensione in una sorta di estasi collettiva. La credenza comune era che lo specchio acquisisse parte delle forza spirituale della reliquia e che potesse di conseguenza emanarla per un certo periodo di tempo e benedire la casa in cui veniva portato. Anche i membri più in vista della nobiltà si convinsero del potere della Lancia: molti vollero che con essa fossero toccati oggetti personali e armi, con un evidente scopo magico potentizzante derivato dal contatto del sangue di Cristo con suppellettili personali. 5 Addirittura ci furono personalità di rilievo che vollero immergere la Lancia nel loro proprio calice convinti che da quel momento in poi avrebbero bevuto acqua in grado di curare e dare vita eterna. Possiamo solo immaginare quale forza psichica ed emotiva si generasse da una tale cerimonia. Certamente queste ostensioni amplificarono l’aura di forza mistica che circondava la Lancia e contribuirono ad amplificarne la leggenda.
La Riforma reagì violentemente a queste forme di venerazione palesemente in contrasto con la norma biblica che vietava l’idolatria, e fece di tutto per cancellare il sistema che ruotava intorno allo scandalo delle reliquie; per questo la Lancia fu chiusa nel suo scrigno e dimenticata per tre secoli. Nel 1805 Napoleone volle aggiungere alle sue conquiste ciò che rimaneva del Sacro Romano Impero; gli abitanti di Norimberga tentarono di sottrarre la lancia alle grinfie del conquistatore e riuscirono fortunosamente a portarla a Vienna dove sarebbe rimasta fino al 1938.
LA LANCIA DI LONGINO E HITLER
Per continuare la storia della Heilige Lanze, all’atto dell’Anschluss, Hitler comandò di riportarla a Norimberga su un treno corazzato il 13 ottobre 1938: fece preparare una zona appropriata all’interno della Chiesa di S. Caterina e vi pose a guardia un corpo scelto di SS.
La stragrande maggioranza degli autori che si sono occupati della Lancia, hanno affermato che non avrebbe avuto alcun senso tutto questo disturbo se per il Fuehrer essa non avesse rappresentato un oggetto magico/archetipico eccezionalmente potente.
E' effettivamente vero che Hitler fosse attratto da oggetti di potere legati alla magia o a forze oscure archetipiche. Ma il caso della Lancia di Longino è differente, perché questi autori si dimenticano di menzionare che essa fu portata a Norimberga insieme a tutto il tesoro regio degli Asburgo e che fu esposta insieme a questo nella Chiesa di S. Caterina insieme ai paramenti regali. Durante la mia visita al museo Hofburg di Vienna, ebbi modo di incontrarmi con il curatore della mostra dove è esposta la Lancia e mi mostrò l'unica fotografia al mondo che ritrae la Lancia esposta: cosa interessante, essa era esposta insieme ad altri oggetti, in una teca laterale, di minore importanza rispetto alla teca più grande e centrale, dove trovavano posto le vesti reali e gli scettri degli Asburgo. Questo ridimensiona immediatamente le teorie di autori avventati che raccontano di interessi morbosi di Hitler nei confronti della Lancia. Per lui era solo uno degli oggetti tradizionali del suo popolo e della sua tradizione storica.
Ad ogni modo, per tutta la guerra rimase nella nuova sede fino a che il 30 aprile 1945 gli alleati se ne impadronirono e la Lancia ritornò, a Vienna, al Kunsthistorisches Museum, con il resto del tesoro degli Asburgo.
INDAGINI SCIENTIFICHE SULLA HEILIGE LANZE
Diverso tempo fa furono prodotti alcuni documentari sulla Lancia e le riprese richiesero l'apertura della teca e nuove analisi: mi misi immediatamente in contatto con il dr. Franz Kirchweger, storico responsabile della Lancia di Longino al museo. Il dr. Kirchweger mi raccontò di come sia i vari stadi di preparazione del video, sia i risultati finali scontentarono completamente i tecnici del Kunsthistorisches che vi avevano preso parte.
In particolare il video delegava al dr. Robert Feather, un esperto di metalli, la piena capacità di trovare la soluzione al mistero della Lancia in una appassionante e quantomai suggestiva caccia alla verità corroborata da analisi scientifiche di prim’ordine. Comprensibile, trattandosi di un video che doveva poi essere venduto e ottenere un ritorno economico ed era effettivamente davvero ben fatto. Ma non reale. Il team di video maker aveva proposto al museo il dr. Feather (che aveva in precedenza scritto un testo su un rotolo di rame trovato a Qumran) e gli fu così permesso di svolgere alcuni test forensi non invasivi, limitati principalmente all’analisi al microscopio ottico. E null’altro.
Il dr. Kirchweger mi disse che il dr. Feather non aveva il necessario expertise per svolgere altri tipi di ricerca sulla Lancia; con una punta di amarezza mi confidò che egli aveva semplicemente attinto le sue teorie dalle guide del museo presentandole nel video come se fossero state sue personali scoperte. 6
In effetti nel documentario si vedeva Feather continuamente in giro per l’Europa a colloquio con i maggiori esperti e lo si seguiva mentre svolgeva anche analisi ai raggi X e con fluorescenza XRF. Kirchweger mi disse invece che a Feather non fu permesso null’altro che l’esame al tampone e al microscopio ottico; il personale che svolse le analisi XRF e le lastre X faceva parte di un laboratorio di cui si serviva spesso il museo: il dr. Feather era presente mentre lo scienziato dr. Schreiner svolgeva i vari esperimenti per conto del museo. Era stato quindi solo il dr. Schreiner a condurre e svolgere tutti i test e aveva semplicemente permesso a Feather di mostrare i risultati nel video. Inoltre Feather fu intervistato da una rivista specializzata 7 e rilasciò una dichiarazione che mi suscitò non poca sorpresa per le novità delle affermazioni, a cui Kirchweger, da me di nuovo contattato a tal proposito, ribatté puntualmente. Riporto di seguito le affermazioni testuali dei due specialisti:
1) Feather: ci sono piccoli ovali sul chiodo di composizione chimica diversa dal chiodo.
– Kirchweger: per quanto riguarda i segmenti a mezzaluna (gli ovali), le nostre analisi hanno mostrato che non c’è alcuna differenza dalla composizione chimica del chiodo.
2) Feather: a un ingrandimento di 14 X abbiamo scoperto quello che sembrava una semplice scalfittura e che invece sembra essere una deliberata incisione dalla forma simile a un pesce, il simbolo dei primi cristiani.
- Kirchweger: Feather non ha mai detto nulla di questi pesci incisi né a Vienna né nel documentario. Che senso avrebbe avuto disegnare un oggetto cristiano che si poteva osservare solo al microscopio ? Si tratta semplicemente di una interpretazione errata di graffi o scalfitture.
ANALISI FINALE
Il museo decise allora di cominciare una propria survey e in particolare di eseguire i test con i mezzi più moderni a disposizione. Le analisi condotte in maniera assolutamente scientifica dal personale specializzato del Kunsthistorisches Museum, sotto la guida de
Il Kunsthistorisches Museum a Vienna |
l dr. Kirchweger, hanno ottenuto i seguenti dati che riporto esattamente come li ho ricevuti e confermano solo in parte i dati del documentario:
- La Lancia risale all’VIII sec. Si tratta di una lancia carolingia con ali laterali che fanno parte di questo tipo di arma.
- Il fodero dorato risale al XIV sec., aggiunto dall’imperatore Carlo IV (reg. 1346 – 1378)
- Il fodero d’argento e i cordoni di legatura risalgono al tardo II sec.
- L’iscrizione sul fodero d’argento nomina Enrico IV (reg.1056–1105) che come imperatore fu chiamato Enrico III (come si evince dall’incisione sul fodero)
In definitiva, le analisi del Museo non consentirono di datare il chiodo in maniera certa. Il dr. Kirchweger mi spiegò che il chiodo potrebbe tranquillamente non essere uno di quelli che trafisse Gesù; fu la tradizione ad assegnargli questo ruolo, e a partire, sembra, dall’XI sec.
L’opinione dello storico del museo era che se ci fosse davvero stato un chiodo risalente alla crocifissione, difficilmente sarebbe stato rimodellato e ribattuto fino ad essere intarsiato all’interno di un altro chiodo, vista l’importanza che le reliquie avevano nel medioevo. Tra l’altro i due materiali (il ferro del chiodo e gli inserti ribattuti dentro di esso) a differenza di ciò che aveva affermato il dr. Feather, alle analisi del museo risultarono della medesima struttura chimica, non vi era differenza tra l’uno e gli altri.
- Sì - Mi disse - Potrebbe essere possibile, ma è solo una delle interpretazioni. Anche con le più accurate indagini non siamo stati in grado di dare corpo a questa teoria. Non abbiamo alcuna prova a sostegno. Non c’è prova che ciò che è stato fatto entrare a forza nel chiodo abbia una consistenza chimica diversa dal resto della Lancia. La conclusione delle ricerche è che i dati tecnici e chimici riguardanti il materiale ribattuto all’interno del chiodo non offrono possibilità di datazione certa. Esiste solo la prova di documenti molto tardi che parlano di chiodi santi o un chiodo santo all’interno della Lancia. La storia della Heilige Lanze era davvero troppo complessa per la troupe della BBC; a loro interessava soltanto far apparire Feather come il solutore dell’enigma della Lancia. Ad ogni modo, ci vorrà molto di più di ciò che hanno fatto loro e certi aspetti rimarranno oscuri per sempre.
Riassumendo la questione, mentre i ricercatori della BBC avevano affermato che il chiodo sembrava simile a chiodi di crocifissione del I sec. e che quel qualcosa che era stato aggiunto al suo interno poteva essere parte dell’originale chiodo della croce, le analisi del Museo non consentivano di datarlo a questo periodo. 8 E sappiamo che le testimonianze scritte medievali sui chiodi santi sono inattendibili perché avrebbero potuto divinizzare un qualsiasi chiodo pur di ottenere una lucrosa reliquia che avrebbe reso sonanti monete in quantità.
Quello che però mi continuava a risuonare nelle orecchie era che nemmeno gli esperti del Kunsthistorisches poterono datare il chiodo o il materiale al suo interno. E quindi poteva anche essere uno dei chiodi originali, anche se sembrava abbastanza improbabile. inoltre, la mia visita al Museo degli Asburgo di Vienna evidenziò la presenza di numerose reliquie con chiodi della crocefissione pressoché identici a quello all'interno della Lancia.
Non abbiamo, per il momento, materiale scientifico che possa fare ulteriore luce sull’oggetto in questione e quindi dobbiamo fermarci qui. Un mistero che sembra esistere da duemila anni e che non smette di affascinarci. Potrebbe essere veramente la Lancia di Longino?
No, perché la lama risale al VII–VIII sec. D’altra parte altre presunte Lance di Longino sono conservate a Roma, a San Pietro sopra la statua di S. Longino, oltre che a Cracovia e in varie città europee e diventa davvero molto difficile trovare quella originale, se mai esiste.
Potrebbe tuttavia esserci qualcosa ribattuto all’interno del chiodo centrale? Sicuramente. Le due piccole croci di ottone mandano un messaggio piuttosto chiaro: dietro ad esse qualcuno ha voluto nascondere qualcosa di prezioso, qualcosa legato agli insegnamenti del cristianesimo. È vero la composizione, a detta degli esperti del Museo Hofburg, è la stessa del chiodo. Ma se fossero entrambi parte della stessa fusione? Se il chiodo e i suoi inserti facessero veramente parte di quelli che trapassarono le mani e i piedi di Gesù?
Non c’è modo di appurarlo e mi sono sorpreso più di una volta a riflettere su un inquietante pensiero: e se veramente ci fosse un chiodo della crocifissione? Ma sono domande destinate a restare senza risposta. E siamo entrati ancora una volta nella Terra dell’Ombra.
C’è rimasto però un piccolo dettaglio da considerare: l’importanza della Lancia nel periodo del nazismo.
ASSENZA DI FONTI SICURE
Il primo problema riguarda l’inconsistenza delle notizie storiche che traiamo dai vari autori. A parte gli ottimi saggi di Kirchweger, Schier e Schleif che però si occupano di altre fasce storiche, della Heilige Lanze e del periodo hitleriano si sono occupati un certo numero di scrittori, la stragrande maggioranza dei quali hanno però sconfinato nella fantascienza: un esempio è lo scrittore Trevor Ravenscroft che ottiene risultati altalenanti, continuamente in bilico tra realtà e fantasia. Il libro di Ravenscroft è certamente interessante ma ha un problema, e anche piuttosto grave: mescola dati storici reali con fantasie e chiaroveggenze varie, di cui non si può determinare in alcun modo la veridicità. Per questo motivo, si può certamente leggerlo ma facendo attenzione: molte delle informazioni presentate sono opera di fantasia e Ravenscroft le ha mescolate così bene con i fatti (probabilmente, era sinceramente convinto che le cosse fossero effettivamente andate così) che alla fine non si capisce più quale sia la verità. Per ritrovare il filo di un discorso legato alla realtà, bisogna fare un passo indietro e perdere molto tempo per scremare le due parti, la fiction dalla realtà.
il libro sulla Heilige Lanze del curatore e storico della camera del tesoro degli Asburgo a Vienna Franz Kirchweger |
Ravenscroft asserisce che Hitler facesse uso di peyote per accrescere la propria sensibilità spirituale: non ci sono prove a sostegno e sinceramente non è mai stato trovato nulla a conferma di questa illazione. L’autore informa poi di rituali satanici e magici compiuti da Guido von List legati alla materializzazione di incubi e forze demoniche: List non compì mai cose del genere. La sua opera, perfettamente visionabile e anzi tradotta anche in Italiano, sull’onda della moda occultistica, riguarda principalmente lo studio della potenza esoterica delle rune. Inoltre l’autore parla con sicurezza della loggia del Vril di cui Haushofer avrebbe fatto parte, la cui esistenza stessa è impossibile da confermare.
Ci sono poi molte formazioni sulla via iniziatica e spiritualista (satanica) di Hitler, ma dove l’autore ha tratto tali informazioni?
Bastano queste brevi note per comprendere come sia effettivamente difficile ritenere storiche anche altre notizie che Ravencroft fornisce. Perciò è bene attenersi a ciò che già sappiamo senza intorbidare ulteriormente le acque.
Senza voler fare un eccessivo e inutile studio letterario sulla sua opera, ci serve capire che cosa è invece verità e qui le cose diventano enormemente più difficili; se è facile dire ciò che non è vero, è molto problematico scegliere alcune informazioni e prenderle per vere. Per cui, per le notizie che seguono il lettore userà discernimento e capirà che sono state inserite solo come curiosità e per completare la storia della Lancia, fermo restando una possibile manipolazione delle stesse. In altre parole ho scelto quelle che sembrano più vere ma non c’è modo di dimostrarlo in maniera assoluta con testimonianze incrociate o documenti.
Travenscroft afferma di aver visitato negli anni ’40 il dr. Walter Johannes Stein; egli era un ebreo che si era allontanato dalla Germania per entrare in Inghilterra nientemeno come consulente di Churchill. Stein aveva insegnato a Stoccarda in una scuola di matrice antroposofica, secondo le teorie di Rudolf Steiner. Aveva scritto in gioventù un opera letteraria in cui vedeva la battaglia tra cristianesimo e islam come una sorta di versione allegorica della lotta per il possesso di un oggetto di potere, la Heilige Lanze. Secondo Ravenscroft, il giovane studente Stein nel 1912 aveva scoperto un vecchio libro usato, il Parzifal, in una libreria esoterica, come tante ve ne erano, a Vienna. Sfogliando con interesse il libro, scoprì che il precedente proprietario lo aveva riempito di glosse e commentari che facevano riferimento ad un iter di prove verso il conseguimento di una superiore saggezza esoterica.
Si trattava di note piene di disprezzo per gli ebrei e contenenti principi di astrologia e ariosofia. Decise di chiedere al proprietario del negozio di chi fosse stato in precedenza il libro e gli fu fatto il nome di Adolf Hitler. Presto decise di incontrarlo e cominciò ad ascoltare le sue elucubrazioni razziste. Stein comprese che Hitler considerava la sacra Lancia un oggetto dotato di enorme potere e che l’avrebbe posseduta, prima o poi per poter così dominare il mondo. Più volte, riferisce l’autore, Hitler era stato ad ammirarla nella sua gioventù, provando anche una sorta di esperienza mistica di fronte alla teca di cristallo contenente la Heilige Lanze.
Ad ogni modo nel 1938, all’indomani dell’Anschluss, Hitler entrò personalmente a Vienna ed effettivamente, su questo non vi è dubbio, fece trasportare la Lancia del Destino su un treno corazzato fino a Norimberga, dove era stata conservata per secoli. A questo punto è opportuno considerare che la spianata di Norimberga era il centro essoterico del Reich, (il corrispondente pubblico dell’omphalos esoterico di Wewelsburg) dove Hitler otteneva lo stato di unione mistica con la sua Germania, durante le grandi cerimonie pubbliche. La scelta di Norimberga sembrerebbe quindi perfettamente adatta. Può darsi che nella sua allucinata ideologia Hitler vedesse effettivamente la Heilige Lanze come un oggetto potentizzante ed effettivamente sembra non esservi nulla che possa in qualche modo negarlo. Ravenscroft rivela comunque molti particolari del satanismo di Hitler che se in piccolissima parte potrebbero venire accolti, per il resto si direbbero farneticazioni di un occultista.
A Norimberga la Lancia fu conservata nella chiesa di S. Caterina per i successivi sei anni, finché, in pieno conflitto mondiale, fu portata in un rifugio per garantirne l’incolumità dagli attacchi aerei alleati. Tuttavia, alla resa di Berlino, il 30 aprile 1945 soldati americani entrarono nel rifugio; il tenente William Horn prese ufficialmente possesso della Lancia per conto del Governo degli Stati Uniti. 80 minuti dopo, Hitler, secondo gli annunci ufficiali successivi che sarebbero stati presto messi in dubbio dalle indagini, si uccideva nel Bunker. Solo il generale Patton, tipo curioso e con certi interessi esoterici, mostrò un discreto interesse nei confronti della Lancia, ma Eisenhower decise che sarebbe dovuta tornare al Museo Hofburg. E così fu.
In questo modo finiva l’avventura hitleriana con la Heilige Lanze e alcuni autori hanno ravvisato nella perdita della reliquia cristiana il giusto epilogo della storia di un criminale che aveva dato fuoco al mondo intero nella sua sete di potere.
LA HEILIGE LANZE E IL CASTELLO DI WEWELSBURG
Per terminare questa breve disamina, nel romanzo IL SETTIMO SEPOLCRO si accenna alla costruzione del Castello sede della sezione SS Ahnenerbe (e del culto segreto SS nella cripta) e del piano finale a forma di Lancia di Longino.
Non è qui il caso di spiegare approfonditamente le motivazioni di una tale scelta perché il lettore potrà trovare tutti questi dettagli e molto di più nel mio saggio I Grandi Misteri del Nazismo – La lotta con l’ombra e, in parte, ne L'ENIGMA OCCULTO DI HITLER: IL TERZO REICH E IL NUOVO ORDINE MONDIALE, a cui rimando.
(Nota per il lettore: nel romanzo mi sono preso una piccola licenza letteraria, aggiungendo una croce in più sulla Heilige Lanze, per far ritrovare ai protagonisti un ulteriore indizio.)
Tuttavia ritengo interessante mostrare come il piano di costruzione del complesso di Wewelsburg aveva come schema la Lancia.
Note
1. Arnold Toynbee per es. menziona Massimiliano martire (III sec.). Minacciato di morte da un proconsole romano per essersi rifiutato di arruolarsi nell’esercito, rispose: <<Non presterò servizio. Tu puoi farmi tagliar la testa, ma io non servirò il potere in questo mondo: dopo, servirò il mio Dio>>. Toynbee, Arnold, Storia e religione, trad. di L. Fenghi, Rizzoli, 1984, p. 115. Inoltre Tertulliano in De corona, XI, 2, trad. di F. Ruggiero, Mondadori, Milano, 1992 scrive <<Sarà mai lecito fare della spada il proprio mestiere, quando il Signore dichiara che perirà di spada chi di spada si sarà servito?>> E. W. Barnes, in The Rise of Christianity, 1947, p. 333 conferma:<<Un’attenta rassegna di tutte le informazioni disponibili mostra che, fino al tempo di Marco Aurelio [121-180 D.C.] nessun cristiano faceva il soldato; e nessun soldato, divenuto cristiano, rimaneva nell’esercito>> Più o meno lo stesso commento si ritrova in C. J. Cadoux, The Early Church and the World, 1955, pp. 275, 276: <<Si noterà che l’evidenza dell’esistenza di un solo soldato cristiano fra il 60 e il 165 A.D. è minima; almeno fino al tempo di Marco Aurelio, nessun cristiano avrebbe fatto il soldato dopo il battesimo>>
2. Sant’Antonino da Piacenza nel 570 D.C. scrisse della sua visita a Gerusalemme dove poté ammirare una corona di spine e una Lancia di Longino, ma non è considerata una fonte attendibile. A Firenze, inoltre, nella Biblioteca Laurenziana è conservato un testo sacro datato circa al 586 d.C. in cui una miniatura dell’artista Rabulas ritrae un soldato romano che trafigge con una lancia il costato del Cristo. Sopra il soldato è dipinto il nome Longinus in lingua greca (Logginos). Questo testimonia che la leggenda era già diffusa cinque secoli dopo la morte di Gesù. Tra l’altro la leggenda di Artù e di Excalibur potrebbero legarsi molto bene alla Lancia di Longino. Vi sono comunque decine di versioni di storie che collegano la Lancia a Costantinopoli, a Gerusalemme e anche a Roma, Cracovia e Parigi, dove sarebbe stata portata durante la Rivoluzione francese. Ma è estremamente difficile districarsi tra verità e leggenda, per cui rimarremo solo sui dati che sono stati confermati come reali.
3. Volker Schier e Corine Schleif hanno pubblicato vari saggi a quattro mani sulla Lancia di Longino, tutti estremamente interessanti tra cui:Seeing and Singing, Touching and Tasting the Holy Lance: The Power and Politics of Embodied Religious Experiences in Nuremberg 1424-1524, Die Heilige Lanze von Wagner bis zum World Wide Web, in: Kirchweger, Franz, Die Heilige Lanze, Kunsthistorisches Museum, Wien, in preparazione e atteso per il 2005, The Holy Lance as Subcultural Icon in the Late Twentieth Century, in: David Scott and Keyan Tomaselli, Cultural Icons, Copenhagen and Colorado Springs.
4. Lo scrigno si trova ora al Museo Nazionale Tedesco di Norimberga.
5. Lo stesso farà Hitler durante la cerimonia del Battesimo delle Bandiere: il contatto con la Blutfahne, la bandiera sporca del sangue dei primi martiri nazisti, trasferiva la sua potenza magica agli stendardi che venivano messi a contatto con essa.
6. Disponibile anche in lingua italiana, in libreria: Kunsthistorisches Museum-Vienna, Tesoro sacro e profano. Guida illustrata (Guida alle collezioni del Kunsthistorisches Museum n.35), Salisburgo - Vienna 1992, p. 160-164.
FINALMENTE RITROVATA L’ARCA DI NOE’?
Negli ultimi anni sono stati fatti numerosi annunci di ritrovamenti dell’Arca di Noè sul Grande Ararat, in Turchia; purtroppo molti di questi si sono rivelati facili sensazionalismi che non hanno portato a nulla, neppure con i mezzi del National Geographic e di altre istituzioni prestigiose che si sono recati sul posto ma con risultati non definitivi.
La regione composta da due montagne, Grande Ararat e Piccolo Ararat, è un’area calda, militarmente sempre in allerta e pericolosa, oggetto di contesa da parte di Iran, Armenia e Turchia, una parte della nazione turca in cui è veramente pericoloso aggirarsi in quanto bande di separatisti curdi, predoni e soldati pronti a sparare non permettono una tranquilla visita della zona.
Tutto ciò rende estremamente rischiosa l’ascensione al Ghiacciaio Parrot, a oltre 4.000 mt di quota dove qualcosa di misterioso è effettivamente stato scoperto.
LE TESTIMONIANZE STORICHE CONFERMANO L’ESISTENZA DI UNA STRUTTUTA SUL GRANDE ARARAT
Da Beroso, a Epifanio, da Giuseppe Flavio a Marco Polo, storici e viaggiatori del passato hanno confermato l’esistenza di una nave di grandi dimensioni, sul Grande Ararat e hanno descritto l’uso delle popolazioni della zona di salire e reperire pezzi di legnobituminoso per farne amuleti protettivi e reliquie.
Molti ricercatori, come l’ingegnere italiano Angelo Palego che ha aperto la strada a ricerche più scientifiche e accurate, sono convinti dell’ubicazione dell’Arca di Noè sul ghiacciaio Parrot e i suoi studi hanno definito chiaramente l’area in cui una vera e propeia anomalia sembra essere presente.
Fino al 2002 tutto ciò che era stato trovato, a parte le interessanti ricerche di Palego, erano pezzi di travi di legno con tracce di bitume, nelle precedenti esplorazioni di Ferdinand Navarra (1955) e del gruppo SEARH (1969). Le recenti spedizioni, cinesi, americane e di altri paesi hanno offerto risultati controversi, con affermazioni in alcuni casi fuorvianti e comunque senza riportare elementi o dati precisi in grado di provare definitivamente il ritrovamento.
UN INCONTRO EMOZIONANTE
Quello che trovate allegato è il più straordinario documento che l’umanità abbia sull’Arca di Noè. E’ un video girato dalla guida alpina Claudio Schranz nel 2002 sul Grande Ararat, a circa 4.200 mt, sul ghiacciaio Parrot. I membri della spedizione, organizzata dai curatori del sito www.noahsark.it, si erano dovuti fermare qualche centinaio di metri prima per l’impraticabilità della zona, ma l’alpinista decise di proseguire fin dove gli fosse stato possibile, correndo un rischio non indifferente. Giunto in prossimità di un crepaccio che gli impediva di proseguire alzò lo sguardo, e quello che vide rimase impresso nei suoi ricordi come uno dei momenti più emozionanti della sua vita.
Si trovava di fronte a una serie di travi che fuoriuscivano dal ghiaccio, nel punto in cui si supponeva trovarsi uno dei due tronconi in cui l’Arca sembra essersi spezzata.
Nel respiro affannoso di Schranz vi è tutta l’emozione del momento: l’aria rarefatta dona un fascino ancora maggiore a questo documento, certamente uno dei più straordinari ritrovamenti del nostro secolo. Di fronte a questo video la platea degli intervenuti alle presentazioni del romanzo L’Ombra del Diluvio rimane sempre ammutolita; si tratta del più straordinario documento in nostro possesso che attesta la presenza di una struttura costituita da grossi travi di legno molto antiche poco lontano dal punto indicato dalla Bibbia come approdo dell’Arca di Noè. Ma è davvero L’Arca di Noè? Se non lo è che cosa può essere? Chi può aver portato in alta quota travi tanto grandi e perché? La struttura è spezzata in due parti e quella trovata da Schranz è rimasta da secoli nel ghiaccio nella stessa posizione poiché è bloccata da uno sperone di roccia che la tiene saldamente ferma al suo posto; non si è spostata a causa dei movimenti del ghiacciaio, né a causa dei forti terremoti che hanno interessato l’area in più secoli.
Una successiva spedizione nel 2010 da parte dell’alpinista e dei suoi collaboratori ha portato alla luce vari pezzi di legno provenienti dalle stesse travi. La datazione sembra corrispondere a quella degli eventi disastrosi descritta dalla Bibbia, nel III millennio a. C.
Se volete una risposta chiara, precisa a queste domande, supportata dalle prove e dalle testimonianze di chi ha visto questa struttura e con la consulenza degli uomini coinvolti nell’impresa, e se desiderate avere altre utili informazioni e volete sapere cosa si cela al suo interno, troverete le risposte nel mystery-thriller L’Ombra del Diluvio (Libro Primo – Pierluigi Tombetti, Eremon Edizioni) in tutte le librerie, completamente basato su dati e prove scientifiche e storiche.
La seconda parte del romanzo, il termine della storia, sarà in vendita tra non molto. Il Libro Secondo è, se possibile, ancora più adrenalinico e dinamico, tra drammi dei protagonisti, disastri ambientali e misteri del passato. Esso conclude questa storia di ampio respiro che tocca tematiche di insolita profondità, dalla frontiera della vita e della morte alla misteriosa energia che la fisica quantistica ha teorizzato (dark energy) e di cui gli astrofisici hanno avuto conferma nel 1998) e che coinvolge l’energia vitale di ogni essere umano, e altri tra i più straordinari enigmi del passato e del presente..
E naturalmente, l’Arca di Noè.
Guarda il video dove è evidente la trave dell'arca sul ghiacciaio.
L'ISOLA DEI MORTI: LA PERCEZIONE ASSOLUTA
Esiste una condizione ineffabile, stendhaliana, una sorta di sintonizzazione artistica che permette di entrare letteralmente nell'opera d'arte: essa assimila la totalità dei sensi e, se vissuta con il totale coinvolgimento che si conviene a chi desidera fruire completamente dell’estetica artistica, è in grado di aprire una porta su un universo poco conosciuto, un nuovo modo di osservare e conoscere, una metodologia alternativa di cui il fisico teorico Wolfgang Pauli e lo psicologo C. G. Jung si occuparono in vari periodi di tempo tra gli anni ’30 e ’50 del secolo precedente.
SINCRONICITA’
Essi misero a confronto psicologia e fisica quantistica nel tentativo di trovare una soluzione a un enigma affascinante, il déjà vu e le cosiddette “coincidenze significative”, giungendo a elaborare il concetto di Sincronicità.
Tralasciando l’oggetto del loro studio che meriterebbe senz’altro una indagine più che approfondita, attingiamo al lavoro di Jung e Pauli perché mette in risalto un aspetto poco considerato e certamente poco noto ai più: l’approccio olistico, un aggettivo che a questo punto diviene parte dello stesso campo semantico di “quantistico”. In pratica la straordinaria capacità e la curiosità dei due scienziati portò alla comprensione della possibilità di esistenza di differenti livelli di realtà, coesistenti e sincroni ma in spazi diversi, manifestantisi spesso con eventi di coincidenza.
Quando nel 1952 uscì il volume Naturerklärung und Psyche i due studiosi proposero con esso due personali visioni che tentavano con il concetto di Sincronicità di dimostrare l’esistenza (come teorizzato dalla meccanica quantistica di cui Pauli era uno dei padri) di una matrice di universi multilivello, interagenti con la nostra realtà a livello percepibile e di cui è possibile scorgere in alcuni eventi o in momenti particolari la connessione e la trama.
UNA NUOVA METODOLOGIA
La metodologia che utilizzavano è positivamente applicabile all’approccio all’opera d’arte, andando oltre ciò che si vede e utilizzando non tanto la pura astrazione o una personale interpretazione atta ad estrapolare un “semantema” artistico, quanto un’insolita piattaforma di osservazione, più elevata di quella ordinaria, utilizzando percezione sensoriale, conoscenza tecnica relativa all’opera e alla personalità dell’artista, mescolata alla visione quantistica dell’universo multilivello. Si tratta di un osservatorio speciale, privilegiato, che rivela molto più di ciò che normalmente si vede.
Un suggerimento in tal senso mi venne qualche tempo fa durante una visita al Musée d'Orsay, a Parigi, quando di fronte a un meraviglioso autoritratto di Van Gogh, ricevetti un'intensissima sensazione, non emotiva ma potentemente fisica, simile a una lancia che partendo dai blu-azzurri intensi del quadro parevano raggiungere direttamente il mio cuore. Ebbi in quel frangente la netta sensazione che l'arte in sé racchiudesse qualcosa di più di una semplice immagine pittorica e fosse in qualche modo collegata all'universo che ci circonda.
In effetti il lavoro di Pauli e Jung ci ha mostrato come il nostro universo, ciò che vediamo, è assimilabile effettivamente a un’opera d’arte di eccezionale vastità e portata, sia da un punto di vista scientifico che estetico. Ma ciò che si vede è una parte infinitesimale di ciò che esiste, e soprattutto la fisica dei quanti ci ha mostrato un cosmo pulsante, di cui la vibrazione, o meglio l'onda, è la costituente fondamentale. Le radiazioni cosmiche sono onde a differenti frequenze, come lo sono la luce, i colori e in ultima analisi le emozioni. La materia non è altro che vibrazione solida, a livello atomico e subatomico e più in profondità a livello quantistico.
Tutta questa stupefacente metafora vibrante che esiste ed è percepibile nell’universo grazie alle interazioni con la materia visibile, è connessa, nei suoi vari strati, a moltissimi livelli sia di materia che di pensiero, ci rende consapevoli che tutto nella natura in cui siamo immersi è interconnesso e raggiungibile, in modalità così complesse ma allo stesso tempo fruibili, da lasciare senza fiato. Applicando questa sorta di metafora-matrice semantica, cioè la consapevolezza che esistiamo in un universo multi-forma e multi-onda, posti di fronte all'immagine, diviene possibile la percezione assoluta, ovvero ammirare un quadro non solo da un punto d
i vista estetico e filosofico, ma anche da un punto osservazione geografico. Se i colori sono onde a diversa frequenza e ampiezza così lo sono i pensieri e le emozioni, se un colore influisce sulle emozioni percepite da una persona che osserva un quadro, siamo di fronte a un processo di feedback artistico che rivela la possibilità effettiva dell’approccio quantistico. Si sta suggerendo un modo insolito per gustare l'arte, ma che riesce ad elevarne la percezione, poiché coinvolge più sensi e rende consapevoli di dimensioni ulteriori e interconnesse tra loro. E’ un modo nuovo e interessante di porsi di fronte all’opera, simile a un’elaborazione tridimensionale computerizzata in grado di rivelare cosa c’è dietro sulla base di studi prospettici, un processo molto simile a quello che compie il cervello normalmente durante la fase di interpretazione del significato dell’opera, su un piano differente, più astratto e teorico. Come una TAC dell’opera d’arte. Così di fronte ad alcuni quadri particolari che ben si prestano a tale indagine, come L'Isola dei Morti (Die Toteninsel) del pittore svizzero Arnold Böcklin (1827-1901),diviene possibile non solo sentire la tristezza dell'anima che giunge alla sua definitiva destinazione, a causa dell’onda-colore che attraverso gli occhi giunge al cervello provocando l’onda-pensiero, ma è anche possibile riceverne una visione a tre dimensioni e oltre, e cioè esplorare l'Isola, salire sulla sua superficie, o addirittura girarvi intorno con la barca, e osservare così ciò che l'artista non desidera o non può mostrare. Questa decisa impressione di multi-spazialità che L’Isola dei Morti emana è una delle ragioni del suo immenso successo, che spinse l’autore a dipingerne cinque versioni per compiacere altrettanti compratori.
DI FRONTE ALL'IMMAGINE, LA PERCEZIONE ASSOLUTA
L'Isola dei Morti è una delle opere in grado di aprire questa porta sull’universo quantistico multilivello esplorato da Pauli e Jung e rivelare il ponte interpretativo su cui camminare, un ponte che, illuminato da questa luce coerente e rivelatrice, si manifesta e conduce fisicamente all'interno dell'opera. Questo modo di sentire un’opera, in qualunque forma essa si manifesti, può giustamente definirsi “olistico”, dal greco όλος, cioè "la totalità" una percezione assoluta, totale, che tiene conto non solo di ciò che si vede ma anche di ciò che non si vede, la cui informazione è presente a livello prospettico, anche se non visibile. Un po’ come un’immagine fotografica in formato digitale RAW; esso è più pesante (nel senso digitale del termine) di una normale immagine JPEG perché contiene molte più informazioni, che un esperto può filtrare ed estrapolare con un software specifico. Grazie a questo sistema un’immagine normalissima può rivelare elementi normalmente invisibili. Non è errato un paragone del genere in quanto i computer e la tecnologia informatica sono costituiti sul modello funzionale umano, in particolare del cervello.
Secondo questo modo molto interessante di assaporare l’arte, essa non si può spiegare esclusivamente con le singoli parti di un’opera ma va colta nell’insieme, oltre che nelle singole unità costituenti. Ciò genera una percezione multilivello che ingloba piani interpretativi legati a campi di studio completamente differenti, eppure a ben vedere molto vicini, a tratti intersecantisi e inframmezzati, come una matrice o una maglia di tessuto, dalla psicologia, alla fisica quantistica, alla simbologia, alla semiotica. L’essenza dell’interpretazione non giace quindi più nell’ammirazione, ermeneutica ed esegesi insieme, di una forma fisica, ma nella percezione e nella assimilazione di punti di vista diversi dall’ordinario sull’opera che come fari puntati da varie direzioni su una statua, possono mettere in luce settori normalmente oscuri. Ecco quindi che può avere luogo, la “percezione assoluta” dell’arte, ovvero partendo dalla conoscenza biografica dell’autore dell’opera e dalla conoscenza dei suoi principi artistici fondamentali, essa astrae il pensiero ed eleva la percezione, esattamente come osservando una scena geografica elevandosi in altezza.
E’ un po’ il senso del Labirinto nella simbologia ermetica: nella consuetudine del quotidiano, siamo immersi e vaghiamo in un labirinto che non permette, se non a pochi e per cause fortuite, di trovare l’uscita. E’ allora necessario un percorso alternativo, in cui non si è più all’interno ma si cammina sulle pareti del labirinto, un punto di vista elevato, e come la visione quantistica occupa lo stesso tempo, ma in spazi / livelli diversi. Da questo punto di vista è possibile scorgere immediatamente l’uscita dalle trappole della vita e afferrarne la vera essenza. Una metodologia interpretativa che è possibile utilizzare con successo nella fruizione dell’opera d’arte.
L’ISOLA DEI MORTI
Ho potuto fare esperienza diretta di tale approccio pochi giorni fa: mi trovavo a Berlino e non potevo in nessun modo, viste le tematiche di cui mi occupo, mancare di ammirare alla Alte Nationalgalerie il quadro preferito di Hitler, un quadro che esercitò su di lui, e su un’intera generazione di appassionati di pittura, un fascino insolito. Esso assunse nel tempo tonalità e sfumature cangianti dall’intrigante al morboso, in cui l’atmosfera sospesa nel tempo e nello spazio recava con sé le brume e le rugiade di Germania, il più gelido ghiaccio delle montagne del Nord mescolato al freddo abbraccio della morte, e il più intenso bisogno esplorativo nei confronti della morte, dell’oblio. Questa necessità di conoscere, come un sacro fuoco di conoscenza è in grado di sciogliere il gelo del dubbio e dell’oscurità, capace di illuminare, seppure debolmente, la realtà, alla ricerca delle risposte alle domande più inquietanti che l’uomo possa porsi.
La potenza espressiva, oscura e morbosa di Böcklin era certamente in piena armonia con l'ideologia wagneriana che costituiva parte considerevole del sostrato ideologico nazista. Le umide nebbie che avvolgono le foreste in cui si muovono Sigfrido, Brunilde, Hagen, il respiro dei draghi, la tumida potenza dei drammi germanici, la mistica grandiosità della saga dei Nibelunghi, la grandezza tragica degli Asi e dei Vani e lo scontro finale di Ragnarøkkr per la rigenerazione del mondo, tutto questo sembra ritrovarsi ne L'Isola dei Morti, che può essere percepita come l'essenza della cultura pittorica tedesca di fine 1800.
Si è parlato di “peso onirico” dell’Isola, in quanto essa ha molto a che fare con la psicanalisi, pur precorrendola, ed è in grado di offrire una veduta d’insieme della Terra dell’Ombra junghiana, i moti interiori che coinvolgono l’inconscio, il sogno e la parte oscura della personalità umana:. Per tutti i suoi misteriosi richiami, l’opera affascinò personaggi del calibro di Georges Clemenceau, De Chirico, D’Annunzio, Dalì. Hitler non poté sottrarsi al suo ineffabile fascino e nel 1936 ne acquistò la versione che è ora possibile ammirare alla galleria nazionale di Berlino. Böcklin dipinse cinque differenti versioni dell’Isola, in sei anni, dal 1880 al 1886.
In tutte le versioni, che differiscono per piccoli particolari, è presente l’isola attorniata da rocce e in mezzo a un mare (o un fiume) d’acqua scura. Il protagonista attivo all’interno del fotogramma che pare annullare il tempo, è una figura vestita di bianco che accompagna una bara, anch’essa bianca, verso l’Isola. Un personaggio di spalle, un timoniere conduce la barca verso la sua meta. L’isola è una sorta di palco dell’inconscio, un anfiteatro naturale in grado di mostrare l’identità oscura della morte e dell’individuo, con alte rocce che la delimitano e al suo interno si ergono cipressi, tradizionale simbolo associato ai cimiteri.
Durante la sua lunga permanenza a Firenze, l’artista aveva il suo studio in prossimità del Cimitero degli Inglesi, dove lavorò alle prime tre versioni, e sembra possibile che egli abbia tratto spunto da esso per i cipressi e l’architettura interna, mentre l’Isola è di incerta attribuzione: secondo la moglie egli si ispirò a una fotografia di Ischia ma è comunque probabile che sia una collage di luoghi che ispirarono il marito.
L’Isola dei Morti non è un luogo effettivo ma una metafora vitale. Parla della morte ma è un’opera che vive di vita propria, che esprime, ammalia, sospira una verità che non si può dire ad alta voce. Ci sono aperture nelle rocce laterali, che si rivelano essere sepolcri. Tutto è ipnosi onirica, silenzio e sussurri. Questo, è “un quadro per sognare”, come richiese la seconda committente di Böcklin, Marie Berna, che era rimasta affascinata a tal punto dal primo quadro della serie (ora al Kunstmuseum di Basilea) che glie ne commissionò un altro, chiedendogli qualcosa che la facesse sognare.
L’artista ne dipinse quindi una seconda versione aggiungendo la figura vestita di bianco e la bara. Böcklin le scrisse il 29 giugno 1880: "Mercoledì scorso ho terminato L'isola tombale. Lei vi si immergerà sognando, in questo oscuro mondo di ombre, fino a credere di aver sentito il soffio lieve che increspa la superficie del mare, fino a voler distruggere il solenne silenzio con una parola detta ad alta voce".
Questa seconda versione è esposta al Metropolitan Museum di New York. Grazie a Die Toteninsel l’artista acquisì velocemente fama europea e gli fu così commissionata la terza versione: da questo quadro in poi l’artista aggiunse le iniziali AR in una delle camere sepolcrali nella roccia. Hitler acquistò nel 1933 la terza versione che divenne il suo quadro preferito, soprattutto per la tematica centrale della morte, che riveste ruolo predominante anche nella visione hitleriana e wagneriana. Dopo la requisizione da parte dei russi nel 1945 e la successiva restituzione alla Germania, questo quadro fu esposto alla Alte Nationalgalerie di Berlino. Böcklin ricevette altri ordini, il quarto dipinto della serie, che era esposto alla Berliner Bank andò perduto durante il secondo conflitto mondiale, mentre il quinto si trova al Museum der bildenden Künste di Lipsia. Curiosamente Arnold Böcklin due anni dopo l’ultima versione decise di dipingere Die Lebensinsel (L'isola dei Vivi, 1888, esposta al Kunstmuseum di Basilea), tesa a controbilanciare l’oscuro messaggio del suo capolavoro precedente e a lanciarne uno più positivo.
CAMMINANDO SULL’ISOLA DEI MORTI
Tornando a quel pomeriggio alla pinacoteca nazionale di Berlino, per la seconda volta, dopo l’esperienza parigina, acquisii consapevolezza dell’esistenza di un ponte fisico, che collega la metafora alla sua rappresentazione fisica, l’idea di un pittore al suo quadro, una metafora che si estende a qualunque campo artistico ed interpretativo. Posto di fronte all’Isola dei Morti, ne ricevetti una intensa emozione insieme a un ugualmente potente messaggio geografico, come se da esso scaturissero precise coordinate e dati, che il cervello stava interpretando. Mi resi conto quindi dell’avvenire dell’approccio olistico, e afferrai in pieno la visione quantistica multilivello di Pauli e Jung. Ciò che avvenne, in quella sala semideserta, mentre mia moglie seguiva altri autori nella sala adiacente ha a che fare con quegli incroci o crocevia della vita che Jung chiamava “coincidenze significative”, eventi di déjà vu o comunque momenti assoluti in cui vari piani di esistenza, o multi-matrici quantistiche, giungono a toccarsi, a conoscersi e subito dopo ad allontanarsi, lasciando nel fruitore un insolito sentimento di qualcosa di straordinario appena avvenuto, una finestra su un nuovo universo multilivello.
In questo momento/memento, un lampo, un attimo di luce illumina una sorta di ponte fisico attraverso il quale è possibili camminare, annullando il tempo, come Böcklin voleva, utilizzando differenti piani di spazio sincroni e casualmente coincidenti, in un fantastico evento di sincronicità.
Ora psicanalisi, arte, storia, tecnica, scienza e arte, coincidevano, ora divenivano improvvisamente visibili le trame e le maglie del tessuto del reale, che collegano la metafora al suo modello reale e alla idea di essa.
Si tratta di un’esperienza ineffabile, stendhaliana, dalle conseguenze così intense e affascinanti da far girare la testa; ho così acquisto consapevolezza (compreso non è il termine più adatto) dell’esistenza di un ponte, che collega gli elementi costitutivi della materia, del pensiero e dell’esistere: le onde, poiché tutto è onda e vibrazione, e quindi il pensiero, dell’artista e di chi osserva, il colore, l’emozione, la materia della tela, tutto non è altro che vibrazione solida o vibrazione pulsante.
E lo stesso è per il tempo; per questo i tempi dei verbi che utilizzo in questa descrizione sono al presente e al passato insieme. Potrei usare anche il futuro se non fosse per l’impossibilità e l’inadeguatezza di questo tempo per una narrazione di questo genere. Passato, futuro e presente si toccano, si toccarono e si toccheranno ancora, e diventano per qualche attimo eterno una sola cosa.
In questo momento assoluto, passato, presente e futuro, come queste onde di interferenza di varia natura, coincidono, come pure gli universi in cui le azioni sono state, saranno e sono compiute; spazi differenti ma sincroni, con un tempo, che come ne La Persistenza della Memoria di Dalì viene annullato, spazi che vengono a contatto e permettono ora di camminare su quel ponte giungendo all’Isola. In pratica una sintonia e sincronia totale, che permette la ricezione delle onde del passato, del pensiero dell’artista, le sue emozioni, i suoi colori, e il pensiero tramutatosi nella materia solida del quadro.
E’ la stessa tecnica pittorica che comunica questa sinestesia totale: L’Isola dei Morti è mito classico, è romanticismo nordico, è natura mediterranea toscana, è filosofia greca, è sepolcri etruschi, che divengono tutto e uno allo stesso tempo perché confluiscono in esso idee del passato, del presente e del futuro, in una comunicazione istantanea del senso dell’arte.
Camminando nel silenzio del ponte riuscivo a sentire il rumore lieve delle increspature dell’acqua su cui la barca si stava muovendo, una vasta distesa d’acqua scura che divide la Vita e la Morte, la più vivida immagine della separazione. Ho visto la barca giungere all’Isola e i due occupanti consapevoli compiere uno strano lavoro con la bara dell’unico passeggero inconscio. Non ho avuto tempo di parlare con loro, poiché stavo giungendo anch’io sull’isola ma in una zona differente; questa è un’isola per sognare, ma non è un sogno, è una manifestazione fisica dell’inconscio.
E io stavo camminando sulle rocce bagnate dall’acqua, percependo il lieve rumore ritmico di essa. Tutto qui è pace, ma una pace che non dona gioia, anzi, una mesta, melanconica tristezza. Stavo esplorando il luogo del problema finale, il luogo dove il mistero della morte può essere rivelato. E’ così, è il luogo dove la Morte racconta i suoi segreti e narra la sua storia, ma bisogna entrare all’interno delle tombe sepolcrali, afferrare una torcia presente all’interno e illuminare la verità. Quest’isola è l’allegoria del Regno dei Morti, ma di morto ve n’è uno solo, quello nella bara e le due figure che stanno compiendo il lavoro non sono morte, o forse non sanno di esserlo, ma tutto qui indica un luogo di riposo riservato ai morti, simboli che richiamano a un cimitero, dai cipressi agli altri minuscoli elementi presenti nel luogo.
Un’atmosfera solenne, ipnotica, la stessa fredda sensazione che si prova all’interno di grandi e antiche chiese, in cui il freddo dei marmi e delle colonne unito al forte aroma di cera e incenso incute sensazioni affatto piacevoli.
Sentivo il freddo del crepuscolo, il sole era già tramontato e mentre spostavo i rami dei cipressi, ne percepivo il profumo. Mi addentrai così all’interno dell’Isola, dietro agli alberi e potei osservare qualcosa, che giaceva al centro prospettico dell’area, qualcosa che non avrei dovuto vedere. L’isola era molto più ampia di quello che sembrava, poiché dietro ai cipressi lo spazio si estendeva all’infinito. E vi era qualcosa che giaceva nascosto. Qualcosa che non mi fu permesso raccontare.
Un’immagine, una realtà in frantumi, frammenti di specchio che riflettevano qualcosa di grande e potente, ma erano frammenti di specchio. E qualcosa, una visione in grado di spaventare chiunque.
Sapevo di non poter rimanere lì e tornai indietro: osservando i due personaggi che trascinavano tristemente la bara sulle rocce sulla strada in salita verso i sepolcri laterali scavati nelle rocce, salii sulla barca e cominciai lentamente a remare, per osservare cosa giaceva dietro l’isola; uscii dalla zona di luce flebile, per entrare nella penombra e infine nell’ombra. E di nuovo potei vedere, o sentire, la cosa era la medesima, che dietro all’Isola non vi era tenebra come poteva sembrare ma che la prospettiva si allargava all’infinito, come un riflesso in uno specchio in grado di moltiplicare molte volte le dimensioni di un’area. E anche lì esisteva qualcosa, qualcosa che non avrei dovuto vedere, qualcosa che normalmente esisteva in un altro universo, casualmente a contatto con il mio e con quello delle figure che trascinavano il morto.
E’ così, tutto è un attimo e dura per sempre, tutto è qui e ed è tutto allo stesso tempo, un tempo che perde il suo significato usuale per divenire differente e molto più complesso. Nel freddo dell’Isola, nell’Isola dei Morti, ho potuto esplorare, gustare i profumi della terra e dei cipressi, percepire la brezza del vento sulla barca, osservare il processo della morte, il posizionamento di una bara nel suo posto definito di quel cosmo onirico e reale insieme. Ma sentivo che il tempo era terminato, pur essendo infinito, e riportai così la barca al suo posto, dirigendomi verso il ponte.
Mi fu suggerito (non so bene da chi, o da cosa, si trattava di percezioni chiare ma non voci), osservando i due personaggi ridiscendere dal sepolcro per riprendere la loro via sulla barca, che il morto era stato depositato temporaneamente in un area precisa, e in quella sinestesia di suoni, odori, di tempi e spazi diversi e uguali, ebbi la risposta alla domanda, e ricevetti la consapevolezza che tutto quel luogo era qualcosa di simile (antropomorfizzo perché non avrei altro modo di descrivere l’ineffabile) a un deposito di dati in una locazione di memoria molto particolare. Che a suo tempo sarebbe stata riutilizzata. Entrando nello stato alfa della mente dell’artista vi fu così la possibilità di sintonizzarsi sulle sue lunghezze d’onda ricevendone così informazioni multilivello.
Dietro ai cipressi, dietro l’Isola, vi era la soluzione a questo processo millenario; nel momento in cui le onde del pensiero dell’artista venivano a coincidere con le mie ne potei avere consapevolezza. Poi, istantaneamente come si era creato, l’attimo assoluto ebbe fine, e tutto tornò alla normalità. Poteva essere durato una trentina di minuti, un atto contemplativo che nella realtà del tempo contingente era durato meno di un battito di ciglia.
Ma sono sicuro di quello che ho visto, di ciò che ho sentito. Si è trattato di un evento di sincronicità, come era accaduto tempo addietro a Parigi di fronte a un Van Gogh e ora ne ricevevo la conferma. Questo approccio olistico, quantistico e multidimensionale all’arte vale la pena di essere sperimentato, poiché è in grado di illuminare verità e significati altrimenti destinati a rimanere per sempre nell’oblio.
Attendo con ansia un nuovo momento di percezione assoluta, ci sono altre opere d’arte, e non solo quadri, in grado di attivarla, e non solo nelle arti dell’uomo. Nel frattempo sono lieto di aver potuto suggerire una fruizione così totale, discreta, ammaliante e significativa.
Chiunque vorrà sperimentarla sarà il benvenuto; l’orizzonte da esplorare si rivela molto più vasto e interconnesso di quanto potessimo immaginare, i messaggi che si ricevono sono intensi e importanti.
Certo, è il mio personalissimo approccio all'arte, diverso da quello di altri. Ma è reale ed efficace se utilizzato insieme ai consueti metodi d’indagine, poiché apre una porta su un universo straordinariamente connesso, tra gli individui, le menti, le opere d’arte, l'universo, esistono interazioni stupefacenti.
E naturalmente, se l’universo è un’opera d’arte, riflette la personalità dell’artista che l’ha generato.
CONFERMATA LA PRIMA PROVA ARCHEOLOGICA DELL’ESISTENZA DI GESU’ DI NAZARETH: L’OSSARIO DI GIACOMO IL GIUSTO
Il processo in corso in Israele da undici anni ha finalmente confermato, prove scientifiche, archeologiche e chimiche alla mano, che l’Ossario di Giacomo non è un falso, un oggetto la cui importanza è tale da aver scatenato uno dei più grandi cover-up del secolo scorso e di quello attuale.
La storia di questo reperto è così controversa, così complessa ed articolata, così pericolosa, da preoccupare sensibilmente esponenti dell’alto clero vaticano, delle massime istituzioni accademiche israeliane e del governo stesso di Israele. L’Ossario di Giacomo il Giusto, il fratello di Gesù costituisce infatti la prima prova archeologica dell’esistenza del maestro di Nazareth e dei suoi fratelli carnali, come insegnato nei vangeli.
La testimonianza dello storico Luca, negli Atti (12:13), afferma che Giacomo morì evidentemente di spada nel 44 E.V. per ordine di Erode Agrippa I, e fu il primo dei dodici apostoli a morire come martire.
UN PUZZLE COMPLICATO
Per ricomporre questo intricato affaire, è necessario fare un passo indietro tornando all’anno della scoperta dell’ossario di Giacomo: nel 2002 Oded Golan, conosciuto collezionista ed esperto di antichità israeliano, contattò il prof. André Lemaire, il massimo epigrafista semitico del mondo, alla Sorbona di Parigi, per mostrargli una serie di pezzi di pregio e in particolare per avere alcuni consigli da esperto su un piccolo ossario approssimativamente datato al I sec.
Lemaire, esaminando vari reperti rimase piuttosto colpito nel notare l’iscrizione incisa su un lato: “Yaakov bar Yoseph achui de Yeshua” ovvero “Giacomo, figlio di Giuseppe, fratello di Gesù.”
Secondo i filologi, gli studiosi di ebraico antico e gli archeologi che studiarono l’ossario, esso risaliva effettivamente al I sec. Per l’iscrizione vi era qualche dubbio solo sull’ultima parte, fratello di Gesù. Infatti, mentre i nomi riportati presi a sé erano piuttosto comuni, l’indagine statistica relativa alle migliaia di ossari ritrovati indicava che la presenza di tutti e tre i nomi nella stessa epigrafe era estremamente rara: ciò significava un’altissima probabilità che i tre personaggi menzionati fossero proprio quelli di cui parlano i Vangeli.
In pratica si trattava della prima prova archeologica e non semplicemente testuale dell’esistenza di Gesù di Nazareth, una scoperta straordinaria, l’unica del genere mai emersa nel mondo della archeologia biblica.
Solo tra il 30 e il 70 d.C. gli ebrei utilizzarono questo metodo di sepoltura. Dopo una disposizione del morto in catacombe per circa un anno, le ossa venivano poi riposte in ossari di media grandezza, decorati da iscrizioni e particolari scolpiti. L’indagine statistica non lasciava spazio a dubbi. su questo tutti gli studiosi sono d’accordo. Il testo cardine per questo tipo di studi è: Levi Yizhaq Rahmani, A Catalogue of Jewish Ossuaries in the Collections of the State of Israel (Jerusalem: Israel Antiquities Authority, 1994. L’unico dubbio era sulla parte finale dell’epigrafe: “(…) fratello di Gesù” che si pensava fosse stata falsificata e invecchiata artificialmente.
Incuriosito da questa notizia e desiderando scrivere un libro su questo argomento, nel corso degli anni mi sentii più volte con André Lemaire per una consulenza specialistica ai massimi livelli e lo studioso francese rimase sempre della stessa opinione, supportato in questo da diversi esperti di settore.
Ma il mondo dell’archeologia biblica subì un terremoto di proporzioni insolite: questa scoperta scatenò un tale putiferio da far intervenire autorità ecclesiastiche e servizi di sicurezza di diverse nazioni.
IL MOTIVO?
Se l’ossario era effettivamente il contenitore delle ossa dell’apostolo Giacomo, uno dei fratelli di Gesù, ciò avrebbe minato alla base il dogma cattolico di Maria semprevergine, e avrebbe comunque rinnovato l’interesse riguardo alla figura del maestro di Nazareth, cosa che l’ebraismo e l’islam avrebbero volentieri evitato.
Altre motivazioni di tipo squisitamente politico sono anche da tenere in considerazione e in effetti il reperto cominciò immediatamente a subire strani incidenti: il primo accadde il 31 dicembre 2002, durante la mostra organizzata al Royal Ontario Museum (Canada). Al momento di liberare l’ossario dal suo imballo, poco dopo il suo arrivo, i tecnici del museo si accorsero con orrore che presentava alcune crepe di cui una proprio sull’iscrizione che aveva acceso tante controversie.
Un altro fu il tentativo di bloccare Oded Golan, screditandolo come falsario; fu istituito un processo in cui l’IAA (l’Autorità archeologica israeliana) e il Governo israeliano sostenevano la parte dell’accusa, mentre Oded Golan, i suoi collaboratori e l’ossario erano gli accusati. In effetti Golan è stato accusato e condannato per aver falsificato almeno un altro reperto e questo ha contribuito a intorbidare le acque.
UNO DEI PIU’ INCREDIBILI COVER - UP DELLA STORIA
Si tratta di un mistero di enorme portata: si rimane colpiti nell’osservare come i media abbiano mandato in onda i questi dodici anni documentari che spiegavano come l’ossario fosse stato ormai smascherato come un falso ben fatto e i falsari ormai prossimi alla condanna. Alcuni di questi filmati sono andati in onda anche in Italia. Eppure, sempre più studiosi nel corso degli anni, e si tratta dei migliori specialisti del mondo, in seguito a test e indagini scientifiche si sono convinti che l’accusa non aveva basi per sostenere la tesi del falso ben fatto.
Per cercare di capire dove stesse la verità, mi rivolsi ad André Lemaire, il quale mi scrisse:”(...) l’ossario è assolutamente autentico ma ci sono forze politiche e religiose interessate a far sparire il reperto.” Un cover-up di inaudite proporzioni, il cui dramma si è svolto proprio sotto i nostri occhi.
Al momento in cui scrivo, gli indiziati del gruppo di Oded Golan sono stati scagionati, nessuna accusa è ancora stata provata, anzi la corte lascia cadere un’accusa dietro l’altra. Addirittura il giudice ha consigliato l’IAA e il governo israeliano di lasciar cadere il caso in quanto le ultime indagini chimiche hanno verificato che non si tratta di un falso: dopo anni di minuziose analisi l’intera iscrizione è stata verificata autentica.
IL SETTIMO SEPOLCRO
Il 24 giugno 2009, mentre stava per uscire in Italia il mio libro IL SETTIMO SEPOLCRO (Eremon Edizioni, la cui trama ruota proprio intorno al sepolcro di Giacomo), Oded Golan mi invitò a telefonargli in Israele: lo chiamai e mi raccontò con estrema gentilezza come stavano realmente le cose.
Mentre alcuni studiosi sostenevano inizialmente la tesi dell’accusa, ora tutti gli scienziati erano concordi: la patina depositatasi sull’iscrizione era risultata autentica alle analisi di laboratorio. Inoltre si trovò un microorganismo che proliferava sull’iscrizione e
sull’ossario, un fungo che impiega almeno cento anni per espandersi di pochi centimetri. Esso ricopriva per una certa parte l’ossario e in particolare se ne rilevò la presenza sopra l’intera iscrizione. Ciò significava che la sua datazione doveva forzatamente risalire a molti secoli fa e lo stesso dicasi per l’intera epigrafe.
Feci a Golan la stessa domanda che posi a suo tempo a Lemaire, come mai ci fosse stato tanto chiasso riguardo all’ossario ed egli mi diede la stessa risposta dell’esperto francese: “(...) Si tratta di una questione molto delicata perché il Vaticano non ammette l’esistenza di fratelli di Gesù. Inoltre l’IAA e il governo che ne aveva sostenuto le parti avevano sollevato un tale polverone che ora si è creata una vera e propria questione di immagine: la lobby dell’IAA è potentissima e ammettere un errore clamoroso sarebbe stato deleterio
per la sua credibilità pubblica. Inoltre diversi studiosi all’inizio avevano paura di mettersi contro la massima autorità per il controllo dei beni archeologici e quindi decisero in un primo momento di assecondarne le valutazioni. Ma ora tutto è chiaro, il processo va avanti e la corte è sempre meno convinta delle tesi iniziali. Il processo potrebbe finire da qui a qualche mese ma IAA e governo israeliano non vogliono perdere la faccia e continuano imperterriti una battaglia che hanno già perso.”
Un mistero straordinario sotto gli occhi di tutti: la verità è uscita allo scoperto chiara e limpida, ma per il grande pubblico, influenzato dalla visione - offerta dai media - totalmente errata della questione, il reperto è rimasto un falso.
Nel romanzo IL SETTIMO SEPOLCRO ho cercato di rendere giustizia a questo misfatto denunciando pubblicamente questi eventi. Nel libro, i protagonisti si trovano faccia a faccia con questo caso che ha dell’incredibile proprio perché è assolutamente reale. E incontreranno direttamente i protagonisti di questa vicenda in un mix tra realtà e fiction straordinariamente intrigante.
Per ulteriore informazione, riporto di seguito l’articolo finale dell’autorevole Biblical Archaeology Review Il problema fondamentalmente è che rimane una informazione specialistica riservata a un pubblico selezionatissimo e ristretto, quello degli specialisti dell’archeologia biblica, ad ogni modo trovate le ultime news al seguente link della rivista BAR (Bible Archaeology Review): www.biblicalarchaeology.org. La rivista nei molti articoli dedicati al processo del secolo, per un decennio ha sempre sostenuto che l’Ossario di Giacomo non è un falso: il giudice ha definitivamente chiuso il processo affermando che “il reperto è autentico. La certificazione è ora accertata e fuori da ogni ragionevole dubbio. Oded Golan è prosciolto da ogni accusa.”
I FRATELLI E LE SORELLE DI GESU’ E IL DOGMA DELLA VERGINITA’ ETERNA DI MARIA
Il 1º novembre 1950 papa Pio XII, Eugenio Pacelli, colui che in qualità di rappresentante del Vaticano aveva firmato il Concordato con Hitler (1933), istituì un nuovo dogma che i fedeli avrebbero dovuto accettare come mistero di fede, non dimostrabile, il cosiddetto dogma di Maria semprevergine. Con esso si definiva lo stato di perpetua verginità della Madre di Gesù anche dopo il matrimonio con Giuseppe.
La spiegazione addotta dalle autorità cattoliche per sostenere il dogma di Maria sempre vergine non collima con le testimonianze dei vangeli. Il termine greco utilizzato nei vangeli (anche nelle successive traduzioni dove vi era un originale aramaico/ebraico) non indica mai cugini o parenti in senso generico, come afferma la Chiesa, ma indica fratelli carnali, figli dello stesso utero o madre.
Inoltre Matteo 1:24,25 afferma chiaramente: “Allora Giuseppe si svegliò dal sonno e fece come l’angelo di Jehovah gli aveva detto e portò sua moglie a casa. Ma non ebbe rapporti sessuali con lei finché non diede alla luce un figlio, e gli diede nome Gesù”
I quattro Vangeli, gli Atti degli Apostoli e due delle lettere di Paolo menzionano i “fratelli del Signore”, “il fratello del Signore”, “i suoi fratelli”, “le sue sorelle”, indicando per nome quattro di questi “fratelli”: Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda. (Cfr. Mt 12:46; 13:55, 56; Mr 3:31; Lu 8:19; Gv 2:12; At 1:14; 1Co 9:5; Gal 1:19).
Gli studiosi sono in generale d’accordo sul fatto che la famiglia di Gesù fosse composta dai due genitori e da almeno quattro fratelli e due sorelle, tutti figli naturali di Giuseppe e Maria,
Durante il ministero di Gesù “i suoi fratelli non esercitavano fede in lui”, e questo esclude senz’altro che fossero suoi fratelli in senso spirituale. (Gv 7:3-5). La tesi di parte cattolica che la parola fratello abbia il senso più vasto di cugino è corretta dall’evidenza sintattica del greco neotestamentario: quando nei vangeli si parla di fratelli carnali di Gesù si utilizza il greco adelfòs (figlio della stessa madre, carnale), mentre nel caso di parente viene usato il termine syggenòs, o nel caso di cugino anepsiòs. In definitiva non vi è alcun dubbio, Gesù aveva diversi fratelli e sorelle figli di Giuseppe e Maria.