contatore

Sicilia

segno zodiacale aquario

La Trinacria - Storia e Mitologia

Trinacria. 

Il simbolo della trinacria è oggi conosciuto perchè presente nella bandiera della Sicilia e in quella dell'Isola di Man.

La sua storia è articolata e per alcuni versi ancora avvolta nel mistero, o comunque nella indeterminatezza, poichè si ricollega alla mitologia.

La trinacria, simbolo della Sicilia, è composta dalla testa della Gorgone, i cui capelli sono serpenti intrecciati con spighe di grano, dalla quale di irradiano tre gambe piegate all'altezza del ginocchio. La Gorgone è un personaggio mitologico, che secondo il poeta greco Esiodo (VIII - inizio VII sec. a.C.) era ognuna della tre figlie di Forco e Ceto, due divinità del mare: Medusa (la gorgone per antonomasia), Steno ("la forte"), Euriale ("la spaziosa"). Avevano zanne di cinghiale, mani di bronzo, ali d'oro, serpenti sulla testa e nella vita, abitavano presso le Esperidi (figlie di Atlante, abitanti presso l'isola dei Beati, nella parte più occidentale del mondo), ed erano in grado, con uno sguardo, di pietrificare gli uomini. Le spighe di grano sono simbolo della fertilità del territorio.

Le tre gambe rappresentano i tre promontori, punti estremi dell'isola - capo Peloro (o Punta del Faro, Messina: nord-est), capo Passero (Siracusa: sud), capo Lilibeo (o Capo Boeo, Marsala: ovest) - la cui disposizione, si ritrova nel termine greco triskeles, e si ricollega al significato geografico: treis (tre) e akra (promontori), da cui anche nel latino triquetra (a tre vertici).

La disposizione delle tre gambe, facendo pensare a una rotazione, ha portato gli studiosi a risalire fino alla simbologia religiosa orientale, in particolare quella del dio del tempo Baal (nel cui monumento a Vaga (Beja, in Tunisia), sopra il toro, vi è una trinacria) - oppure a quella della luna, dove le tre gambe sono sostituite da falci. In Oriente - in Asia Minore - tra il VI e il IV secolo a.C. la trinacria fu incisa nelle monete di varie città, in antiche regioni, quali: Aspendo (in Panfilia: sul Mediterraneo orientale), Berrito e Tebe (nella Troade: territorio intorno alla città di Troia, tra lo Scamandro e l'Ellesponto), Olba (in Cilicia; tra Armenia e Siria), e in alcune città della Licia (sud-ovest, sul mare).

Pur in mancanza di riferimenti alla conformazione geografica, il simbolo fu utilizzato anche a Creta, in Macedonia, e nella Spagna celtiberica (area centrosettentrionale). Omero, nella Odissea, alludendo alla forma dell'isola, utilizza il termine Thrinakie, che deriva da thrinax ("dalle tre punte"). La tesi sulle origini della trinacria trovano un riferimento sostanziale nella storia della Grecia antica. I combattenti spartani incidevano nei loro scudi una gamba bianca piegata all'altezza del ginocchio: simbolo di forza. Questa immagine si ritrova nei dipinti sui vasi antichi, ed è anche in una monografia del 1863 sull'argomento, scritta dal filosofo tedesco K.W. Goettling.

I normanni, arrivati in Sicilia nel 1072, "esportarono" la trinacria nell'isola di Man, che la scelse come simbolo in sostituzione di quello precedente - un vascello - di origine scandinava. Un esempio della rilevanza simbolica della trinacria, nella storia della Sicilia, si è avuta il 30 agosto del 1302 con la costituzione dell'Isola in regno di Trinacria, a seguito della pace di Caltabellotta, alla conclusione della guerra del Vespro, che vide la contesa tra gli angioini e i siciliani ai quali si allearono gli aragonesi. La sovranità del Regno era, dal punto di vista formale, assegnata a Federico II d'Aragona (1227-1337); di fatto era indipendente dal resto dei possedimenti aragonesi nell'Italia meridionale.

La trinacria è presente anche negli stemmi di varie dinastie nobili quali gli Stuart d'Albany d'Inghilterra, (forse derivato proprio dal loro dominio su isole del mare d'Irlanda, tra cui l'isola di Man), i Rabensteiner di Francia, gli Schanke di Danimarca, i Drocomir di Polonia, e in quello di Gioacchino Murat, re delle Due Sicilie all'inizio del 1800. La trinacria è al centro della bandiera della Sicilia, di colore rosso e giallo in senso diagonale, approvata nel gennaio 2000. La legge stabilisce che la bandiera siciliana sia esposta all'esterno della del Parlamento siciliano (Assemblea regionale siciliana), della sede della Giunta regionale, delle sedi dei consigli provinciali e comunali, delle sedi dei presidenti delle provincie regionali e dei sindaci dei comuni, le sedi degli istituti scolastici di ogni ordine e grado, gli edifici in cui sono costituiti seggi elettorali in occasioni delle elezioni per il rinnovo del Parlamento siciliano.

I Siciliani Insegnarono la Meridiana ai "potenti Romani" di Viola Dante

 

 

La meridiana, detta anche più correttamente orologio solare o sciotere, è uno strumento di misurazione del tempo basato sul rilevamento della posizione del Sole. Ha origini molto antiche e nella sua accezione più generale indica in massima parte gli orologi solari presenti sui muri degli edifici. In senso stretto, con meridiana si dovrebbe intendere unicamente l'indicatore del passaggio del Sole a mezzogiorno.

 

L'ago della meridiana è lo stilo, detto gnomone; è l'asta che, tramite l'ombra proiettata sul piatto (o quadrante) dell'orologio stesso, permette l'indicazione dell'ora.

Quando ancora i romani non sapevano leggere il sole, i siciliani già possedevano la tecnologia della meridiana.

Si narra infatti che l'orologio solare o sciotere o meridiana, per l'appunto, fosse stato introdotto a Roma dal console Valerio Messalla dopo la conquista di Catania. Città all'interno della quale trovò un oggetto strano, ma pragmaticamente utile. Era il lontano 263 a.C.
E a quel tempo si chiamava Elitropio.

Ovviamente non siamo stati noi ad inventarla.
La meridiana era già nota ad egizi, greci ed alcune testimonianze ci catapultano addirittura al Neolitico. In ogni caso resta il fatto che i romani non le conoscessero, mentre in Sicilia se ne realizzavano di bellissime già a partire dal IV secolo.

RANDAZZO MISTERIOSA





Randazzo, antico borgo alle pendici dell’Etna, adagiato su un banco lavico di epoca preistorica sullo spartiacque dei fiumi Alcantara e Simeto, conserva ancora il suo antico e misterioso fascino. Le sue origini sono incerte e si perdono nell’oblio del tempo e della storia millenaria dell’Isola, che ha visto l’ avvicendarsi di vari popoli e culture, dai Siculi ai

Fenici, Greci e Romani, dagli Ostrogoti ai Bizantini, Arabi, Normanni, Svevi e Aragonesi. Il territorio è stato popolato fin dall’età preistorica, come testimoniano i vari ritrovamenti archeologici rinvenuti in zona. Le origini dell’abitato, però, con molta probabilità, risalgono al periodo successivo alla conquista greca, quando, intorno al V secolo a.C., un gruppo di esuli provenienti dalla Tessaglia, fondarono poco a monte dell’odierno abitato, una città di nome Triakala o Triocala che, fu distrutta subito dopo le guerre servili e riedificata – a spese dell’Imperium Romanum – sul luogo dove oggi sorge l’attuale città di Randazzo. Essa comunque viene menzionata per la prima volta in un documento della metà dell’XI secolo; in tale documento il Duca Roberto il Guiscardo concedeva a Joanni de Kalephatie seniori l’investitura delle contee di Randazzo e Maniace. Grazie alla fertilità delle sue terre, all’abbondanza d’acqua ma soprattutto alla sua favorevole posizione lungo l’antico tracciato della Via Pubblica , in seguito Regia Trazzera – importante asse viario che collegava le città di Messina e Palermo, attraversando i Nebrodi Meridionali e le Madonie –, divenne ben presto una delle più importanti e influenti città della Sicilia nonché centro cosmopolita poiché accoglieva tra le sue mura Lombardi, Greci, Latini e Ebrei. Senza dubbio queste caratteristiche non sfuggirono ai Cavalieri Templari. Sebbene non disponiamo di documenti scritti, è probabile che essi si stabilirono nella parte nord-occidentale della città, appena fuori dalle mura della stessa, dove fondarono la loro domus, dedicata a San Giovanni Battista. Inoltre, per un motivo ancora ignoto, la città fu scelta per realizzare un singolare progetto. Le chiese dedicate alla Vergine Maria e quelle dedicate a santi molto cari alla Militia Templi, furono edificate in modo da riprodurre a terra, con grande approssimazione, l’asterisma della Vergine, proprio come le famose cattedrali francesi dell’Ile de France.





Confrontando le due figure si può constatare che:

1. Porrima, Gamma (γ) Virginis, corrisponde alla Basilica minore di Santa Maria;

2. la stella Theta (θ) Virginis è in relazione con la chiesa di Santa Maria della Volta;

3. Spica, Alfa (α) Virginis, è correlativa alla chiesa di Santa Maria dell’Agonia;

4. la stella Zeta (ζ) Virginis corrisponde alla chiesa di Santa Maria degli Ammalati, oggi intitolata a San Pietro;

5. la stella Delta (σ) Virginis è in relazione con la chiesa di Santa Maria di Loreto, oggi non più esistente;

6. la stella Kappa (κ) Virginis corrisponde alla chiesa di Santa Maria della Misericordia;

7. la stella Tau (τ) Virginis è correlativa alla chiesa Santa Maria di Gesù;

8. la stella 61 Virginis è in relazione con la chiesa di Santa Maria dell’Itria o dell’Odigitria, della quale restano pochi ruderi dei muri perimetrali;

9. la stella 49 Virginis corrisponde alla chiesa di Santa Maria delle Grazie, abbattuta per costruirvi il convento di San Domenico;

10. la stella TYC 4953-1222-1 è correlativa alla chiesa di Santa Maria dell’Elemosina, la quale ridotta a rudere fu inglobata in una cabina elettrica.

11. la stella 38 Virginis è in relazione con la chiesa di Santa Maria di Porto Salvo, chiesa dell’antico monastero delle monache che seguivano la Regola di San Bernardo, oggi non più esistente;

12. la stella 95 Virginis è correlativa alla chiesa di Santa Catarinella (Caterina), oggi non più esistente;

13. la stella 82 Virginis corrisponde alla chiesa di San Martino;

14. la stella 76 Virginis è in relazione alla chiesa di Santo Stefano, oggi non più esistente;

15. Zaniah, Eta (η) Virginis, è corrispondente alla chiesa di Santa Maria Maddalena, in seguito dedicata a San Giorgio;

16. Zavijava, Beta (β) Virginis, è correlativa alla chiesa del Signore della Pietà;

17. la stella 16 Virginis è in relazione con la chiesa di San Michele Arcangelo, oggi Santuario della Madonna del Carmelo;

18.Vindemiatrix, Epsilon (ε) Virginis, corrisponde alla chiesa di San Giovanni Evangelista, oggi inglobata in una casa residenziale.

Tuttavia, questo non è l’unico legame di queste chiese con il cielo, giacché esse furono edificate seguendo precise regole astronomiche nonché matematiche e geometriche.

Isola delle Femmine

 

 

A pochissimi chilometri da Palermo, in direzione Trapani, si trova un bellissimo lungomare che parte da Barcarello, passa per Sferracavallo e arriva ai comuni di Isola delle Femmine, Capaci e Carini. Queste spiagge, in alcuni tratti rocciose in altri sabbiose, caratterizzate da acque dai bellissimi colori, d’estate si popolano di migliaia di bagnanti che scappano dalla città in cerca di un po’ di relax e di un bel bagno. Molti sono i lidi che "invadono" la spiaggia durante la bella stagione,soprattutto nei mesi di luglio ed agosto, con tanto di animazione per adulti e bambini, servizio di noleggio capanne, chioschetti di bibite, gelati e tavola calda, servizio di salvataggio e pronto soccorso, e tutto ciò che fa veramente estate. Se dunque vi piacciono le spiagge animate e movimentate, questo è il luogo che veramente fa al caso vostro.

Se invece amate la tranquillità, la serenità e la bellezza di una spiaggia poco affollata e con acqua limpida, dove potere fare un bagno e rilassarsi al sole, magari leggendo un buon libro, il periodo migliore per visitare queste spiagge senza dubbio sono i mesi di giugno e di settembre. Ma non sono da disdegnare neppure i mesi di maggio e di ottobre, quando le temperature sono sì più fresche, ma tutto sommato ancora estive.

Durante l’inverno questa zona non manca di regalare splendidi scenari e tramonti che non possono lasciare indifferenti. Protagonista diventa l’Isola delle Femmine, un piccolo isolotto disabitato, sormontato da un’alta torre, assai vicino alla costa, che sembra quasi potersi toccare con mano, specie lungo il Viale Amerigo Vespucci. E’ la meta preferita dei fotografi del luogo a caccia di un bel paesaggio, ma anche di un bel servizio fotografico per un matrimonio o una cerimonia importante! In questa lingua di terra che si allunga quasi come se volesse cercare di toccare l’isolotto, quando il mare è agitato, si possono notare dei bellissimi giochi si acqua, con le correnti che si scontrano a metà.

 

ISOLA DELLE FEMMINE

L’origine di questo nome un po’ particolare non è proprio certo. Molte sono le storie e le leggende legate a questo nome, alcune senza alcun fondo di verità, altre invece più plausibili. Noi ve le raccontiamo tutte, poi decidete voi quella che più vi piace.

Una delle voci più accreditate farebbe risalire il nome alla presenza di un antico carcere femminile che sorgeva proprio sull’isola. In realtà non è mai stata ritrovata nessuna traccia che possa fare supporre per tale versione.

Esiste un’altra leggenda legata sempre al concetto di carcere femminile. Si narra che in un tempo remoto, 13 donne di origine turca, si fossero macchiate di atti che avevano coperto di vergogna le rispettive famiglie. Ferite nell’orgoglio le famiglie stesse decisero di punire le sventurate e le misero su delle barche che lasciarono alla deriva in mare aperto. Dopo giorni e giorni di inutile navigazione, quando le donne sembravano oramai rassegnate ad una imminente fine, ecco che videro schiantare le loro barche su una costa. Si trattava di una piccola isola dove si stabilirono e vissero in pace per 7 lunghi anni. Poi un giorno i familiari, pentitisi del grave gesto commesso, le andarono a cercare fino a quando le trovarono sull’isola. Una volta ristabilita l’armonia familiare si spostarono tutti sulla terra ferma e vissero in un luogo che chiamarono Cca-paci (qui la pace) che corrisponde all’attuale paese di Isola delle FemmineCapaci.

Un’altra leggenda, più romantica e anche più tragica, vede protagonista un Conte che si era invaghito di una giovane e bella fanciulla del paese che tuttavia non ricambiava il suo amore. Il conte allora, ferito nel suo orgoglio di maschio, non trovò nulla di meglio che rapire la fanciulla, portarla sull’isola e abbandonarla lì. A nulla valsero le grida disperate della giovane donna che un giorno, al culmine della disperazione, si tolse la vita gettandosi in mare in una notte di maestrale. Si narra che tutti gli anni, il giorno della sua tragica scomparsa, si riesca ad udire il suono del suo pianto.

E poi esiste un’altra versione, poco romantica, poco fantasiosa, ma molto banale e piuttosto plausibile. A quanto pare un tempo l’isola veniva chiamata "insula fimi", l’isola di Eufemio, un navigante dell’epoca che amava passare spesso da quelle parti. Nel corso degli anni, con l’omologazione della lingua,, insula fimi divenne Isola delle Femmine. Questa è la versione più accreditata dagli storici i quali hanno anche riscontrato delle grosse somiglianze tra la torre presente sull’isola con quella presente sulla terra ferma e a quelle presenti a Capo Mongerbino e Capo Zafferano. Le ultime 2 risalgono al ’400, al tempo del re Aragonese Martino il giovane, mentre la torre sull’isola la si fa risalire a Camillo Camillani, ovvero lo stesso autore della Fontana Pretoria a Palermo. Si tratterebbe di torri di avvistamento, per segnalare immediatamente l’avvicinarsi dei nemici.

Ci piace continuare a pensare che questa isola sia avvolta da un affascinante velo di mistero.


Creature mostruose sparse per la penisola

Avvolto nel mistero, sembra essere anche quello che, già nel Settecento, veniva considerato il luogo più originale che esista al mondo: Villa Palagonia a Bagheria (Palermo), nota anche come la “Villa dei Mostri”. L’edificio è un concentrato di creature mostruose, statue raffiguranti animali fantastici e figura grottesche e orripilanti

Le ragioni di una simile decorazione non sono chiare, ma forse vanno ricercate nel fatto che colui che volle la villa nel 1749, Francesco Ferdinando Gravina, principe di Palagonia, era affetto da un disturbo fisico, la gobba. Circondarsi di creature più brutte di lui forse rappresentava un modo per sentirsi meno mostruoso.

Risalgono al Rinascimento, invece, i mostri e i colossi scolpiti nella roccia nel misterioso Sacro Bosco di Bomarzo, o anche conosciuto come Parco dei Mostri (Viterbo).

Voluto da Vicino Orsini per motivi tuttora oscuri nella sua tenuta di Bomarzo, il parco è una sorta di labirinto che si snoda tra statue gigantesche e creature mostruose.

Una delle particolarità del parco sta nelle iscrizioni misteriose disseminate qua e là. L’ultima iscrizione dice che il Sacro Bosco “sol se stesso et null’altro somiglia”. Di sicuro un’esperienza da fare, quella del Sacro Bosco di Bomarzo: già di giorno appare misterioso, una continua meraviglia per gli occhi. Ci si chiede come potrà apparire al calare del sole, quando ad assistere allo spettacolo ci sarà solo la luna.

La leggenda della fata Morgana

 

 

Al tempo della conquista barbara uno dei re conquistatori arrivò in Calabria e si trovò davanti un'isola meravigliosa con al centro una montagna che emanava fumo e fuoco. Stava meditando su come fare per raggiungerla e conquistarla, quando gli apparve una donna bellissima che gli disse: "Vedo che guardi quella meravigliosa isola e ne ammiri le distese di aranci e ulivi, i dolci declivi ed il suo magico vulcano. Io posso donartela se la vuoi." Era agosto, il mare era tranquillo e neppure un alito di vento turbava la pace e la serenità del luogo, l'aria era tersa e limpida e davanti agli occhi del re barbaro accadde uno strano fenomeno: la Sicilia era vicinissima, si potevano vedere chiaramente gli alberi da frutto, il monte che vomitava fuoco e perfino gli uomini che scaricavano merci dalle navi. Il re barbaro si buttò in acqua sicuro di poterla raggiungere con pochi passi. Mentre il re barbaro affogava, la fata Morgana sorrideva.

Ancora oggi si verifica questo strano fenomeno per cui, nelle giornate particolarmente terse di agosto e settembre, la Sicilia sembra vicinissima alla Calabria e se ne possono distinguere distintamente campi, case e colline; infatti la fata Morgana non è altro che un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di Messina e nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni atmosferiche. Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede nello stretto Reggio.


 

Secondo il mito, Morgana è figlia di Igraine e di Urien, e sorellastra di Artù. La prima opera letteraria nella quale appare la figura di Morgana è la "Vita Merlini" di Goffredo di Monmouth, 1148, nella quale Morgen è una fata guaritrice, che cura Re Artù, e che vive ad Avalon con nove sacerdotesse...

Un breve accenno alla figura di Morgana era già presente nell'Historia Britannicum, nella quale si narrava che Artù era stato curato ad Avalon.
Attorno al 1170 Morgana riappare in "Erec et Enide", in questo testo è sorella di Artù e fata guaritrice.
Benoit de Saint Marure la cita nel "Roman de Troie", 1160 e in "La Vulgata Lancelot" si dice di lei: "Verità fu che Morgana, la sorella di re Artù, era molto esperta di incantesimi e di sortilegi e più di tutte le donne; e per il grande impegno che ci mise lasciò e abbandonò la comunità della gente e soggiornava giorno e notte in foreste profonde e presso le fonti, cosicchè molte persone, che erano molte nel paese, non dicevano che era una donna, ma la chiamavano Morgana la dea".
Con il passare del tempo la figura di Morgana andrà sempre più assumendo tratti negativi e da guaritrice diventerà traditrice e maga, caratteristica che le rimarrà addosso in tutta la letteratura cortese del XIII secolo.
La peculiarità della figura della fata nei romanzi del XII secolo era di abitare in un altro luogo e di poter curare il re ferito, mentre nel XIII secolo la caratteristica è quella di rapire gli uomini e farne suoi amanti.

Leggende sull'origine della Sicilia

 

 

Il popolo siciliano, forte della sua vivacità spirituale e del suo esuberante carattere, ha trasfigurato in leggende anche l'origine stessa della sua terra definendo la Sicilia come un dono fatto da Dio al mondo in un momento di supremo gaudio. Pertanto l'isola mediterranea non sarebbe altro che la metamorfosi di un diamante posto da Dio nel mezzo del mare per la felicità del mondo.

I tre promontori, che danno alla Sicilia il suo tipico aspetto triangolare, sarebbero il frutto dell'estro di tre ninfe, che vagavano per il mare prendendo dalle parti più fertili del mondo un pugno di terra mescolata con sassolini. 
Le tre ninfe si fermarono sotto il cielo più limpido e azzurro del mondo e, da tre punti ove si erano fermate, gettarono il loro pugno di terra nel mare e vi lasciarono cadere i fiori e le frutta che esse recavano nei veli che le ricoprivano. Il mare, al loro apparire, si vestì di tutte le luci dell'arcobaleno e, a poco a poco, dalle onde emerse una terra variopinta e profumata, ricca di tutte le seduzioni della natura.
I tre vertici del triangolo, dove le tre bellissime ninfe avevano iniziato la loro danza, divennero i tre promontori estremi della nuova isola e si chiamarono capo Faro (Peloro) dal lato di Messina, capo Passero (Pachino) dal lato di Siracusa, e capo Boeo (Lilibeo) dal lato di Palermo.
"Da questa configurazione a tre vertici" scrive Enrico Mauceri "venne alla Sicilia antica il nome di Triquetra o Trinacria che diede, forse in epoca ellenistica, quella rappresentazione strana e caratteristica al tempo stesso, di una figura gorgonica a tre gambe, adottata perfino in alcune monete dell'antichità classica, e divenuta poi il simbolo, diremo così, ufficiale dell'isola".


 

La bellissima principessa Sicilia

Il nome dell'isola è nato da una leggenda, che parla di una bellissima ma sfortunata principessa del Libano, che si chiamava appunto Sicilia. Alla sua nascita le era stato predetto da un oracolo che al compimento dei quindici anni d'età avrebbe dovuto lasciare la propria terra natia, sola e su una barchetta, altrimenti sarebbe stata pasto dell’ingordo Greco-Levante, che le sarebbe apparso sotto le mostruose forme di un gatto mammone, divorandola.
Per scongiurare questo pericolo, non appena compì quindici anni (che così voleva l'oracolo) il padre e la madre, piangenti, la posero in una barchetta, e la affidarono alle onde.
E le onde, dopo tre mesi (ritorna puntualmente il numero 3), quando ormai la povera Sicilia credeva di dover morire di fame e di sete, poiché tutte le sue provviste si erano esaurite, deposero la giovinetta su una spiaggia meravigliosa, in una terra luminosa, calda e piena di fiori e di frutti, colma di profumi, ma assolutamente deserta e solitaria.
Quando la giovinetta ebbe pianto tutte le sue lacrime, ecco improvvisamente spuntare accanto a lei un bellissimo giovane, che la confortò, e le offerse ospitalità e amore, spiegando che tutti gli abitanti erano morti a causa di una peste, e che il destino voleva che fossero proprio loro a ripopolare quella terra con una razza forte e gentile, per cui l'isola si sarebbe chiamata col nome della donna che l'avrebbe ripopolata; e, infatti, si chiamò Sicilia, e la nuova gente crebbe forte e gentile, e si sparse per le coste e per i monti.

Qual è il fondamento storico di questa fascinosa leggenda?
Lasciando da parte le questioni etimologiche (con le quali si è arrivati a congetturare che il termine Sicilia deriverebbe dall'unione delle due voci antiche sik ed elia, indicanti rispettivamente il fico e l'ulivo, e starebbe a significare la fertilità della terra siciliana) c'è da osservare che i due grandi folcloristi che hanno riportato questa leggenda, il Salomone Marino e il Pitrè, hanno concordemente indicato il riferimento culturale, cogliendolo nell'antica favola di Egesta, abbandonata dal padre Ippota su una barchetta affidata alle onde, perché non diventasse preda dell'orribile mostro marino inviato dal dio del mare Nettuno; e che poi, approdata in Sicilia, e sposa di Crìmiso, generò l'eroe Aceste di cui parla Virgilio nel quinto libro dell'Eneide; ma ambedue hanno trascurato il fondamento storico, che è dato dall'accenno all'ingordo Greco-Levante, che avrebbe divorato la povera Sicilia. Il temibile mostro greco-levantino altro non è che l'impero bizantino, la cui dominazione in Sicilia, protrattasi dal 535 all'827, lasciò un cattivo ricordo nell'isola per il suo avido fiscalismo, tanto che fino a qualche tempo fa si diceva ai bambini cattivi, per farli impaurire: "Vidi ca vénunu i greci!" (bada che stanno per venire i bizantini).
Il che spiega sufficientemente la genesi storica della leggenda.

 

 

Scilla e Cariddi

  

Le due rupi poste tra l'Italia peninsulare e la Sicilia, affacciate sullo stretto di Messina, note fin dall'antichità per in pericolo che rappresentavano per la navigazione e ritenute sede di due terribili mostri chiamati con quei nomi. Scilla, sulla rupe posta in prossimità di Reggio Calabria, aveva dodici piedi e sei lunghi colli sormontati da altrettante teste; in ognuna delle sei bocche aveva tre file di denti e latrava come un cane. Cariddi, sulla costa siciliana, stava appostata invisibile sotto un alto albero di fico e tre volte al giorno inghiottiva le acque dello stretto, rivomitandole successivamente in mare.

Le storie di Scilla e Cariddi

   

Scilla, figlia di Crateide, era una ninfa stupenda che si aggirava nelle spiagge di Zancle (Messina) e fece innamorare il dio marino Glauco, metà pesce e metà uomo.
Rifiutato dalla ninfa, il dio marino chiede l’aiuto della maga Circe, senza sapere che la maga stessa era innamorata di lui.
La maga, offesa per il rifiuto del dio marino alla sua corte, decide di vendicarsi preparando una porzione a base di erbe magiche da versare nella sorgente in cui Scilla si bagna usualmente.

Appena Scilla si immerge, il suo corpo si trasforma e la parte inferiore accoglie sei cani, ciascuno dei quali con una orrenda bocca con denti appuntiti. Tali cani hanno dei colli lunghissimi a forma di serpente con cui possono afferrare gli esseri viventi da divorare.
A causa di questa trasformazione, Scilla si nasconde in un antro presso lo stretto di Messina. Decide anche di vendicarsi di Circe privando Ulisse dei suoi uomini mentre lui stava attraversando lo stretto. Successivamente ingoia anche le navi di Enea.

La leggenda vuole che Eracle, attaccato dalla ninfa mentre attraversa l’Italia con il bestiame di Gerione, la uccide, ma il padre della ragazza riesce a richiamarla in vita grazie alle sue arti magiche. Il suo nome ricorda “colei che dilania”.

Insieme a Cariddi, per i greci impersona le forze distruttrici del mare. Queste due divinità, localizzate tra le due rive dello stretto di Messina, rappresentano i pericoli del mare.
 


Montorsoli - Scilla 
(Messina, Museo Nazionale)

Montorsoli - Cariddi
(Messina, Museo Nazionale)

 

Il mostro Cariddi impersona, nell’immaginario collettivo, un vortice formato dalle acque dello stretto. Tale ninfa mitologica greca è figlia di Poseidone e di Gea ed era tormentata da una grande voracità. Giove la scaglia sulla terra insieme ad un fulmine. E’ abituata a bere grandi quantità di acqua che poi ributta in mare Anche in questo caso, come il precedente, il passaggio di Eracle dallo stretto di Messina insieme all’armento di Gerione è provvidenziale: quando essa gli rubò alcuni buoi per divorarli, Giove la colpisce con il fulmine e la ninfa precipita in mare trasformata in un mostro. Il primo a raccontare questo mito fu Omero spiegando che Cariddi si trova di fronte a Scilla. Anche Virgilio parla di Cariddi nel suo poema Eneide.

“Il fianco destro di Scilla, il sinistro Cariddi implacabile tiene, e nel profondo baratro tre volte risucchia l’acqua, che a precipizio sprofondano, e ancora nell’aria con moto alternale scaglia, frusta le stelle con l’onda"
(Virgilio Eneide III 420-23)


 
La collocazione geografica e l'ecosistema complessivo (acque, correnti, venti, caratteristiche geomorfologiche, presenze faunistiche, ricchezze botaniche e naturalistiche) fanno di questa terra un luogo assolutamente unico. Nel corso dei secoli ha ospitato culture, presenze, identità antropologiche, tradizioni popolari, miti, tutti indissolubilmente connessi alle caratteristiche geografiche e morfologiche dei luoghi, producendo una ricchezza di espressioni e una fusione di elementi tali da rendere questo sito un simbolo stesso della storia dell'umanita'. Non e' un caso se il nome assunto dal versante siculo dello stretto (Peloro) deriva dal termine greco antico che qualifica esseri, animati e non, "fuori dal comune", nei quali e' presente del prodigioso, ma sovente anche del mostruoso, al contempo. Un termine associato al nome di divinità guerriere come Ares, impegnate in lavori sovrumani come Efesto, eroi eccezionali quali Eracle, Achille, Aiace, o creature gigantesche e dalla forza prodigiosa, come Orione, o gigantesche e mostruose come il ciclope Polifemo, e ancora associato al nome di mostri marini che nella tradizione hanno proprio nell'area dello Stretto la loro sede, come l'immane e terribile Scilla. Questo articolato quadro di unicità risulta dalla convergenza di elementi di varia natura, relativi alle origini, alla storia, alla cultura dell'area dello Stretto, visto come straordinario insieme di elementi che provengono dalle scienze naturali e naturalistiche, dall'urbanistica, dalla storia dell'arte, dall'antropologia e dall'etnografia, dalla attività affabulatoria esercitata negli ultimi diecimila anni intorno a tale sito. Memorie e suggestioni mitologiche e letterarie (da Omero a Horcynus Orca), tradizioni marinare, emergenze archeologiche, storiche, architettoniche, oceanografiche, paesaggistiche: ecco l'articolato palinsesto culturale e ambientale che rende questo territorio un unicum di cui occorre garantire la tutela, la persistenza e la salvaguardia finalizzate a una fruizione dei luoghi e del sapere che essi ospitano, a beneficio dell'intera umanità.

Lo Stretto di Messina, l'antico Fretum Siculum, è largo Km.3 circa, a Nord fra Capo Peloro e Torre Cavallo, e Km. 16 circa, a Sud fra Capo d'Alì e la Punta Pèllaro in Calabria.

La leggenda di Mata e Grifone

Mata e Grifone sono due statue gigantesche che, nei secoli sono state accostate a varie figure mitologiche: Crono e Rea (ovvero, nella tradizione latina, Saturno e Cibele), Cam e Rea, Zanclo e Rea, infine Mata e Grifone.

Le versioni del mito di Mata e Grifone sono diverse, alcune narrano che il gigantesco guerriero e la regina bianca rappresentino i veri fondatori di Messina, mentre altre ritengono che siano i prigionieri musulmani fatti dal condottiero Ruggero D'Altavilla nel 1086.

La costruzione di queste statue è attribuita al fiorentino Martino Montanini, allievo del Montorsoli su incarico del Senato di Messina intorno al 1550.

Mata, su un destriero bianco (un tempo scuro), simboleggia l'elemento indigeno; la tradizione la vuole nativa di Camaro, antico quartiere cittadino sull'omonimo torrente.
La testa è un rifacimento dell'originale andato distrutto prima a seguito del terremoto del 1783, successivamente nel terremoto del 1908 infine dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

L'attuale statua è stata eseguita dallo scultore Mariano Grasso nel 1958. Presenta sul capo una corona con tre torri (forse le torri dell'antico castello di Matagrifone), oltre che ramoscelli e fiori; dalle orecchie le pendono orecchini d'oro. Indossa una corazza di colore azzurro con ricami in oro sopra una veste bianca che le copre le ginocchia; porta ai piedi calzari con stringhe intrecciate. Sulle spalle un mantello di velluto blu.

Zanclo (Grifone), che cavalca uno stallone nero (un tempo bianco), ha una bellissima testa di moro, incoronata con foglie di lauro e ornata da orecchini a mezzaluna. Indossa una corazza sopra una corta tunica bianca bordata in oro. Nella mano destra impugna una mazza di metallo, con la sinistra tiene le redini e al braccio ha uno scudo ovale al cui interno vi sono raffigurate tre torri nere su sfondo verde.
Porta al fianco una bella spada la cui elsa è ornata da una testa di leone e da due teste di uccelli rapaci. Sulle sue spalle, un mantello di velluto rosso.

La più accreditata delle leggende si riferisce al 964, quando Messina era l’ultimo baluardo siciliano che resisteva all'occupazione araba. Un generale invasore di nome Hassas Ibn-Hammar, durante l’assedio alla città, vide la bella Mata figlia di un commerciante messinese.
Innamoratosene costrinse con la forza il padre a dargliela in sposa. Le mille attenzioni del saraceno non furono sufficienti a far innamorare la candida fanciulla, solo la sua conversione al cristianesimo riuscirono ad intenerirne il cuore.
Il nome di Hassan diventò Grifo ribattezzato Grifone per la sua mole. I due innamorati prosperarono e vissero... felici e contenti.

Nella realtà invece, la loro nascita è da collocarsi intorno alla fine del XVI sec., in un momento in cui si era di nuovo inasprita la rivalità tra Messina e Palermo, su quale delle due dovesse ricoprire il ruolo di capitale.
Nel 1591 Filippo II ordinò che il Vicere risiedesse a Messina per 18 mesi ogni triennio. In questi anni le due città facevano a gara nell'esibire titoli e privilegi che potessero far prevalere l'una su l'altra.
Nel 1547 in contrada Maredolce, a Palermo furono rinvenute delle ossa gigantesche, probabili resti dell'antica fauna che aveva popolato l'Isola in epoca preistorica (elefanti nani e ippopotami).
Questo ritrovamento fece asserire ai Palermitani che la loro città era stata fondata da "Giganti", quindi in epoca assai remota, e ciò le arrecava un maggior prestigio rispetto alla città dello Stretto.
Forse fu per reazione a queste pretese che il Senato di Messina ordinò la costruzione delle due statue.

 

La leggenda di Aci e Galatea


Aci e Galatea (Rosariu Anastasi, pinacuteca Zelantea)

Questa leggenda ha un’origine greca e spiega la ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea.

Secondo la tradizione, Aci era figlio del dio italico Fauno e della ninfa Simeto. Si innamorò, corrisposto, della ninfa Galatea, insidiata da Polifemo.


Ottin Auguste (francese, 1811-1890): Polifemo (1866),
bronzo, e la ninfa Galatea tra le braccia del pastore
Aci (1866), marmo, Parigi, Giardini di Lussemburgo.

Galatea aveva respinto le proposte amorose di Polifemo che, offeso per il rifiuto della ragazza, uccide il suo rivale nella speranza di conquistare la sua amata.
L'armonia del flauto di Aci tace per sempre ma Galatea, affranta,
continua ad amare Aci e prega gli dei affinche' il suo amante torni in vita.
Nereide, grazie all’aiuto degli dèi, trasforma il corpo morto di Aci in sorgenti d’acqua dolce che scivolano lungo i pendii dell’Etna.

Non lontano dalla costa, vicino l’attuale Capo Molini, esiste una piccola sorgente chiamata dagli abitanti del luogo "il sangue di Aci" per il suo colore rossastro.
Sempre nei pressi di Capo Molini esisteva un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello, Aci. Nell’undicesimo secolo dopo Cristo un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei sopravvissuti che fondarono altri centri. In ricordo della loro città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome di Aci al quale fu aggiunto un appellativo per distinguere un villaggio dall’altro. Si spiega così, ad esempio, l’esistenza di Aci Castello (appellativo dovuto alla presenza di un castello costruito su di un faraglione che poi fu distrutto da una colata lavica nell’XI secolo) ed Acitrezza (la cittadina dei tre faraglioni).

 


Polifemo, sdegnato per aver scoperto che Aci è l’amante della sua Galatea, lancia un enorme scoglio contro il giovane rivale.
Dettaglio affresco Galleria Palazzo Farnese, Roma


Galatea e Polifemo.
Affresco (ca 1512-1514) di Raffaello
 Villa Farnesina - Roma

 

 

Demetra e Core - Un mito per la Sicilia

 

La più antica denominazione è quella che ritroviamo in Omero, nel VI libro dell'Odissea: Thrinakìe. Da questo termine, per evoluzione linguistica, discenderà l'altro, più familiare di Trinacria.
A chiunque l'osservi sulla carta l'isola appare come un triangolo rovesciato, figurazione geometrica che nel pensiero esoterico universale attiene sempre alla dimensione spirituale, profonda.
Altre definizioni affini e altrettanto note: "triscele", alla greca; "triquetra", alla latina. Si tratta di denominazioni che alludono e rinviano a un simbolismo della rotazione, l'eterno moto circolare del divenire (del sole, secondo il punto di vista d'una minoranza di studiosi).
Ai livelli più arcaici di cultura, come altrove nel Mediterraneo, l'isola è certo caratterizzata dal matriarcato: il ruolo delle donne è più incisivo e determinante rispetto a quello maschile.
La religiosità più diffusa e prevalente, come già a Creta, è quella della Grande Madre, espressione teologica dell'archètipo dell'eterno femminino, protagonista dell'evento unico della generazione e della cultura agraria, delle coltivazioni.

Nella pietra del monte si manifesta la divinità. Le due principali roccaforti del culto riservato alla Dea in Sicilia furono Enna, santuario iniziatico fin dal Neolitico, ed Erice. Entrambe, in principio, espressero la propria sacralità in forma diretta, immediata, per il loro stesso essere montagne. La prima epifania della Grande Madre in verità fu la pietra stessa: la rocca detta ancora oggi "di Cerere" nel caso di Enna, una cratofania o, se si preferisce, una ierofania litica, cioè il sacro che si manifesta in forma di pietra. La roccia, per la sua intrinseca robustezza e durevolezza, ben si presta a garantire le idee dell'eternità, del sacro, dell'intangibilità (il tabù).
D'altronde i miti più arcaici raccontano di un'età acronica, fuori del tempo, in cui Terra e Cielo erano indivisi, in cui uomini e dèi vivevano solidali la vita di ogni giorno. Poi, per un accidente variamente definito, intervenne un distacco traumatico.
Da allora, l'umanità nostalgica ha tentato di ripristinare l'originario collegamento fra i tre piani, cielo, terra e mondo infero, con montagne artificiali (le piramidi o le ziqurat babilonesi, le cosiddette "torri di Babele") in cui fossero possibili forme di reintegrazione rituali, o i monti, le rocche, che costituiscono naturali assi di collegamento fra il piano terrestre e quello celeste. Così in Sicilia, isola per lo più caratterizzata da rilievi, la Grande Madre fu soprattutto Dea Montagna.
Quasi tutti i rilievi ebbero, già in epoca preistorica, il crisma d'una sacralità naturale, quanto meno la presenza, il predominio, d'una ninfa delle acque: a Palermo, prima di santa Rosalia, il monte Pellegrino (l'Ercta dell'antichità) fu l'habitat di varie manifestazioni successive in senso storico della Dea (Astarte,Tanit...); a Cefalù, una ninfa delle acque dominava la rocca (Castello Diana); a Tindari, la Madre nera è nozione immemoriale. In epoca storica emergono i santuari di Enna ed Erice. E vicino a Enna, nell'"ombelico della Sicilia", il mito fisserà il luogo del ratto di Proserpina, sequestrata da Ade nel giardino posto ai margini del magico lago di Pergusa.

 

Il mito di un mondo nato per pategenogenesi


In età greca l’antica dea verrà identificata con Demetra. Diodoro Siculo, nel I sec. a.C., parlando delle assemblee dei contadini, del lutto e della ritrovata gioia di Cerere per il ritorno, seppure periodico, di Core (Persefone) dagli inferi, ci consegna la descrizione di un grande mito di partenogenesi simbolo del cosmo. Il riso-sorriso della Dea (ò ghélos gynaikòs…) ricreò la spiga, e –dunque- il mondo, per l’equivalenza fra la parte e il Tutto così sentita dagli antichi ancor prima che nascessero l’ermetismo e l’alchimia. E ciò senza alcun concorso maschile. Il che costruisce un indubbio unicum, nella storia delle religioni, paragonabile solo a un altro mitologema, quello della nipponica Amaterasu, divinità solare patrona della famiglia imperiale del Tenno, considerato suo discendente.

 

La Sicilia ebbe per prima il dono del grano

Per sottolineare l'importanza della diffusione del culto di Demetra e Core, vengono in aiuto le testimonianze classiche, in particolare di Diodoro Siculo e Cicerone. Diodoro Siculo dopo il ratto di Gore, Demetra, poiché non riusciva a trovare la figlia, accese le fiaccole dai crateri dell'Etna, si recò in molti luoghi della terra abitata e beneficò gli uomini che le offrirono la migliore ospitalità, dando loro in cambio il frutto del grano. Gli Ateniesi accolsero la dea con grandissima cortesia, e a loro per primi, dopo i Sicelioti, Demetra donò il frutto del grano. In cambio di ciò il popolo di Atene onorò la dea molto più degli altri con famosissimi sacrifìci e con i misteri eleusini, i quali superiori per antichità e sacralità, divennero famosi presso tutti gli uomini. Gli abitanti della Sicilia, avendo ricevuto per primi la scoperta del grano per la loro vicinanza con Demetra e Gore, istituirono in onore di ciascuna delle dee sacrifìci e feste cui dettero il nome di quelle e la cui data di celebrazione indicava chiaramente i doni ricevuti. Fissarono infatti il ritorno di Gore sulla terra nel momento in cui il frutto del grano si trova ad essere perfettamente maturo. Scelsero per il sacrifìcio in onore di Demetra il periodo in cui si incomincia a seminare il grano. Celebrano per dieci giorni la festa che prende il nome dalla dea, una festa splendida per la magnificenza dell'allestimento, durante la cui celebrazione si attengono all'antico modo di vita. In questi giorni hanno l'abitudine di rivolgersi frasi oscene durante i colloqui, poiché la dea, addolorata per il ratto di Core, scoppiò a ridere a causa di una frase oscena.

 

Un culto antico e ben radicato nell'isola

Diodoro Siculo, nativo di Agyrion (l'attuale Agira, in provincia di Enna), rimarca il fatto che Demetra donò il frutto del grano alla Sicilia in tempi remoti, concetto ribadito anche da Cicerone, ponendo l'accento sull'arcaicità del culto. Si può ipotizzare la presenza di originarie divinità femminili ctonie, legate alla fertilità della terra e alla simbologia della morte-rinascita, presenti in Sicilia prima della colonizzazione greca (iniziata nellVlII sec. a. C.).
Diodoro elenca una serie di cerimonie che si celebravano in onore delle dee. Queste erano le Thesmophoria, dedicate a Demetra, l'Anagoghé, che ricordava il ritorno di Core sulla terra, la Katagoghé, invece la discesa agli Inferi, e l’Anakalypteria, in ricordo delle nozze tra Core e Fiutone (Ade).
Dalla voce autorevole di Cicerone, sebbene i pa-si siano enfatizzati dalla requisitoria contro Verre (In Verrem), risulta chiaro come i riferimenti siano inconfutabili e rispondenti al vero, sia per l'antichità dei culti, che per l'importanza che essi conservarono fino a epoca romana e oltre.
La maggiore diffusione si ebbe specialmente sotto i Dinomenidi, fra VI e V sec. a. C. Anche all'epoca di Timoleonte, quando, in seguito alla vittoria del generale greco sui tradizionali nemici Cartaginesi al fiume Cremiso (341 a.C.) nel territorio di Leontinoi (l'attuale Lentini - Sr), e abbattuta la tirannide a Siracusa, si attua symmachia, 'l'alleanza', sulle monete coniate in quest'epoca appare la testa di Core, assieme alle fiaccole e alla spiga. Tutto questo è emblematico, perché testimonia la grande importanza in Sicilia del culto di Demetra e Core, di cui Enna rappresentò sicuramente un fondamentale centro di irradiazione e tale rimase fino al tardo periodo imperiale romano.


A riprova di quanto fosse radicata la religiosità nei confronti delle due dee, giova ricordare le parole dello stesso Cicerone (in Verrem IV, 49, 50): «Mi vengono in mente i templi, i luoghi di quel culto [...] in quel famoso giorno in cui essendo venuto a Enna, mi vennero incontro i sacerdoti di Cerere [...]. Gli Ennesi credono che Cerere abiti presso di loro, tanto che mi sembravano non cittadini di quella città, ma tutti sacerdoti, tutti abitanti e ministri della Dea».

 

La prostituzione sacra nella terra dell'amore




. L’epica lotta che Ercole condusse contro il re del luogo si concluse naturalmente con la vittoria dell’eroe, il quale affidò la città agli abitanti in attesa che venisse a governarla qualcuno della sua stirpe. quel re valoroso e sfortunato, che la leggenda chiama proprio Erice e del quale fa il progenitore del luogo.: Erice viene detto figlio di Afrodite, la dea dell’amore. E così la leggenda spiega, a suo modo, il fatto che questa dea fu la vera sovrana della città, , sfidando e vincendo il passare dei secoli.
Afrodite dei Greci, Tanit dei Cartaginesi, Venere dei Romani: la rugiada, si narra, cancellava al mattino le tracce dei sacrifici che alla sera si compivano, all’aperto, nel suo luogo sacro; ed ogni anno un volo di colombe recava sull’antistante costa africana il segno di un rito sovranamente mediterraneo, tornando poi indietro a significarne la reciprocità. Si praticava la prostituzione sacra: anch’essa segno inconfondibile del culto che in antico si rese alla dea dell’amore.
In Sicilia, canta Virgilio, venne a mancare il vecchio padre dell’eroe, Anchise; e fu sepolto proprio sul monte di Erice, dove si svolsero cerimonie grandiose in suo onore. V’è forse un caso fortuito in questo collegamento? O non è vero piuttosto che Enea, figlio di Venere, doveva pur sostare nel celebre santuario della dea tanto più in quanto gli abitanti del luogo si ritenevano anch’essi di provenienza troiana? Così accade che Enea fondi sul monte, per la divina madre, «una sede vicina alle stelle»; e che il culto si diffonda in Roma, dove a Venere Ericina vengono dedicati un tempio sul Campid
oglio e poi un altro presso la Porta Collina.
Cosa resta, oggi, di Erice antica? Sulle pendici nord-occidentali del monte, tratti imponenti di mura, dalle quali sporgono grandi torrioni, risalgono certamente a prima dell’età cristiana: ne fanno fede alcune lettere puniche incise sulle pietre. Quanto al celebre santuario della dea, poi rifatto in epoca romana, poi trasformato in chiesa, restano oggi sulla vetta del monte, nell’area del Castello che domina l’abitato, le fondazioni di un edificio punico ed un pozzo, finora detto di Venere, nel quale i turisti si recano a gettare le monetine come nella fontana di Trevi: Alcuni anelli d’oro e d’argento, sempre con la immagine di Venere, sono quanto rimane della leggendaria ricchezza del luogo sacro. Gli scavi compiuti in passato, e che dovranno essere dopo lunga pausa ripresi, indicano la presenza ad Erice di un notevole insediamento punico, confermando i dati già offerti dalle lettere incise sui blocchi di pietra delle fortificazioni; suggeriscono che nella fase antica di tale insediamento fosse attivo l’influsso dei più remoti e fecondi centri della civiltà mediterranea; mostrano che l’occupazione si protrasse per alcuni secoli, confermando le notizie storiche sul permanere dei Cartaginesi ad Erice fino alla conquista romana. Così, l’archeologia illumina i racconti degli antichi scrittori, rivelando la complessità delle credenze e dei riti di queste terre.

Erice: la leggenda di Berretta Rossa

 

La leggenda di Berretta Rossa nasce ad Erice e si lega ai luoghi del cosiddetto “Quartiere Spagnolo”, un impianto architettonico di natura militare, i cui lavori di costruzione iniziarono nel ‘600 ma non furono mai ultimati. La costruzione nacque in origine nel progetto di ospitare le truppe spagnole di stanza ad Erice durante un periodo di presidio militare. Forse il fatto che i lavori di un così sfarzoso progetto urbanistico-militare, senza un’apparente ragione, non vennero mai portati a termine e forse anche il fatto stesso che le truppe spagnole abbandonarono improvvisamente quell’importante sito militare mentre era ancora in costruzione, alimentarono nella fantasia dei locali la suggestione della presenza ad Erice di un luogo maledetto, infestato da un fantasma. Il fantasma in questione sarebbe quello di un soldato spagnolo, impiccato sullo spiazzale antistante la caserma, poi ribattezzato simpaticamente Berretta Rossa. Secondo quanto si racconta un giovane soldato spagnolo si trovò ad importunare impudentemente la ragazza di un uomo ericino ed una sera l’uomo trovò il soldato spagnolo nel cortile della fidanzata intento a farle la corte. L’ericino, infuriatosi, intimò al soldato di non farsi mai più rivedere pena la morte, ma questi in preda ad un raptus omicida lo assalì pugnalandolo al petto. Per questo misfatto il soldato spagnolo venne subito rinchiuso in carcere e condannato a morte per impiccagione. Il giorno dell’esecuzione, a novembre, sotto un cielo minaccioso, nero, il condannato si presentava al patibolo, davanti ad un pubblico di spettatori e curiosi, con la sua militaresca berretta rossa ancora sulla testa. Quando il boia ebbe l’ordine di eseguire la sentenza, il violento strappo della corda nel tramortire il soldato alla nuca spostò sull’orecchio destro la sua piccola berretta rossa. L’impiccato ormai esamine aveva assunto, in una macabra scena tra luci ed ombre, l’inquietante posa di una figura caravaggesca, e proprio quando i presenti stavano lasciando il posto, il corpo del soldato ebbe improvvisamente un fremito, un sussulto e dalla sua bocca fuoriuscì uno stridente sibilo, poi tutto tacque ed anche il corpo cessò di tremare, intanto un vento sinistro venuto dal nulla aveva tolto e portato via il berretto rosso dal capo immobile dell’impiccato. Allora tutti presero in fretta ad andar via, e fu dopo qualche giorno che gli anziani iniziarono a dire che Berretta Rossa, così intanto avevano chiamato quel soldato spagnolo, era morto in maledizione per aver rifiutato i sacramenti religiosi, e che per questo la sua anima era condannata a vagare in un limbo eterno per quei luoghi dove morì, a causa dei suoi delitti terreni.  Da quel momento del fantasma di Berretta Rossa si cominciò a parlare tra i vicoli, sui cortili e nelle case di Erice, anche perché iniziarono proprio allora a verificarsi strani fenomeni: urla, tonfi sordi, satiriche risa, sparizioni misteriose, crolli improvvisi e voci tra le mura del quartiere spagnolo, tanto che i soldati spagnoli abbandonarono in fretta e furia il presidio della caserma, trovando ospitalità presso le case degli ericini. Molti sono i racconti dei locali e di sconosciuti visitatori che, ignari della leggenda, sono stati colti nei luoghi del quartiere spagnolo, in passato e di recente, da tremendi spaventi, facendo a detta dei testimoni, in una sorta di cronaca dell’inspiegabile, la terribile esperienza di lugubri lamenti, di bizzarre apparizioni e di evanescenti figure aggirarsi tra la nebbia, in notti buie e di tempesta, proprio quando si dice il fantasma di Berretta Rossa si materializzerebbe, girovagando inquieto, senza pace, né requie.

Il mito della Venere Ericina



prima ancora che fosse dedicato dai Fenici ad Astarte, quello che fu il "thémenos", il santuario di Afrodite, il tempio di Venere Ericina, era il luogo della dea dell'amore. Un luogo che avrebbe attirato su questa vetta popolazioni e dove, secondo Diodoro Siculo, Erice, figlio di Bute. uno degli argonauti di Giasone, e di Afrodite stessa, aveva eretto il tempio dedicato alla propria madre e fondato la città., il culto della Venere ericina, a cui i marinai di passaggio erano particolarmente devoti, giovani prostitute sacre alla dea, crebbe insieme alla sua fama e alla sua ricchezza: Tucidide fa riferimento a "i doni fatti alla Dea, anfore, coppe e ricche masserizie..." dai pellegrini e Diodoro Siculo attribuisce a Dedalo, fuggito da Creta, la creazione di un ariete d'oro dedicato ad Afrodite. In ogni caso, è chiaro che un luogo come Erice, in una posizione geografica del tutto privilegiata per l'ampissima visuale, oltretutto fortificato e protetto efficacemente, dovesse assumere il potere che l'interesse dei popoli che si succedettero attribuirono al santuario-fortezza.
sconfitti i Cartaginesi, si "appropriarono" del luogo e del culto della Venere, da tempo diffuso in molte città mediterranee, ricostruirono il tempio sulle rovine lasciate dalla guerra, riportando Erice agli antichi splendori, e fecero erigere a Roma, prima, un piccolo tempio sul colle Capitolino e, nel 181 a.C., uno più grande presso Porta Collina, dedicati alla dea ericina. La considerazione dell'Impero per Erice fu tale da stabilire di porre, a protezione del thémenos ericino, una guarnigione di soldati e che le città più fedeli della Sicilia dovessero sostenere anche economicamente il culto. Addirittura, la città e il suo territorio verranno citate da Virgilio che scrive di come Enea si fermò in questi luoghi e volle seppellire vicino al santuario il padre, Anchise, prima di veleggiare per il Lazio dove fondò Roma: questo mito legò, quindi, di "parentela" elimi e romani, entrambi discendenti da Venere, madre sia di Enea che di Erice...
A lei, contribuendo ad arricchire il tesoro del tempio, offrirono doni governatori, magistrati, alti militari fino a che, diminuiti i traffici marittimi e con essi la solidità economica della Sicilia, il culto, già impoverito dal fatto di essere praticato in quello che era divenuto un centro militare, fu debellato dall'avanzare del cattolicesimo.
Dopo il periodo romano, quello del massimo splendore, ad Erice si succedettero bizantini, saraceni - con questi ultimi si chiamò Gebel al Hamid - e normanni: Ruggero d'Altavilla battezzò il borgo e il territorio Monte San Giuliano, in onore del Santo che era intervenuto, a cavallo e con una muta di cani, a dare man forte ai suoi soldati contro gli arabi. Che con rimpianto lasciarono la rocca e, soprattutto, le donne di Venere: "che Allah il misericordioso le faccia schiave dei Musulmani" scrisse, nel 1185, Ibn Giubayr.

Misteri di Sicilia, la grotta
della Sibilla a Marsala

 


Nel comune di Marsala, in provincia di Trapani, nella famosa cripta di San Giovanni, nota anche come “la grotta della Sibilla” ogni anno, per la vigilia della festa del Battista che avviene intorno il 24 giugno, molti vi accorrono per assistere a riti divinatori. La cripta si trova nella zona ipogea della chiesa di San Giovanni Battista al capo Boeo, costruita dai gesuiti intorno all’anno 1500.
Tradizione vuole che chi beve l’acqua che sgorga dalle spalle della statua del santo può acquistare il dono della profezia. Secondo il rito antico, alla vigilia della festa, le donne del paese si recano in massa per consultare la sibilla che, vivrebbe proprio tra quelle acque, ma sotto forma di pitonessa.
“Alla vigilia della festa del Battista le donne del popolo accorrono numerose alla cripta per consultare l’antica pitonessa che vive nell’acqua. –– Vicino il pozzo si “ascuta” la Sibilla. C’è chi addirittura cade in una specie di trance o delirio mistico, anche se qualcuno dice che questi effetti sono dovuti al fatto che l’acqua non sia troppo potabile”.
“L’ascutu” l’ascolto delle parole dell’oracolo sono essenziali per chi giunge ai piedi della statua portando con se un bagaglio di favori e desideri da chiedere alla sibilla, affinché quest’ultima possa segnare la via più giusta per la buona riuscita di sogni e aspirazioni.
La “cara Sibilla”, come la chiamano i marsalesi viene descritta una donna bellissima con poteri taumaturgici che ascolta paziente le richieste di coloro che si recano da lei per avere responsi e, attraverso rituali cledonomantici, la sibilla parla e risponde per mezzo di particolari segnali che solamente chi fa le richieste potrà comprendere.
“La sibilla, a differenza delle altre donne presenti nella cultura popolare, pagana –mantiene una lunga tradizione alle spalle. La Sibilla rappresenta un oracolo, un dio. E la Chiesa piuttosto che far scomparire la figura della Sibilla, l’ha quasi sostituita con quella di un santo o di una santa, facendo assorbire da questi i tratti qualificativi. La stessa Pizia viene citata nella Bibbia nel passo in cui si descrive l’incontro del re Saul con una donna dai poteri oracolari di nome Python che prediceva il futuro, appunto dalle sembianze di pitone, come la sibilla”.
Nell’antica leggenda dell’oracolo di Delfi, Pizia era la sacerdotessa che pronunciava gli oracoli in nome di Apollo nel santuario di Delfi proprio nell’omphalos, nell’ombelico del mondo ed aveva, come la Sibilla, la capacità di ascoltare e consigliare coloro che invocavano il suo aiuto.
“Come nell’oracolo di Delfi, anche la grotta della Sibilla è scavata nella roccia-– E non è un caso che la festa a cui fa riferimento la grotta della Sibilla sia quella del S.Giovanni Battista. Il battesimo infatti celebrato dal discepolo di Cristo, esorcizza il peccato attraverso l’acqua; acqua che simbolicamente assume questa funzione catartica.
Ancora una volta tra magia, mito e leggenda per un sistema millenario di credenze che continuano a vivere forse in forme differenti da quelle tramandateci, pur sempre continuando in ogni caso ad “stregare”.